
L'auto-miglioramento e la produttività sono una trappola culturale E se l'autentico benessere fosse altro?
Viviamo in un’epoca in cui l’auto-miglioramento è diventato un imperativo culturale. Libri, podcast, corsi online, video su TikTok e newsletter ci invitano quotidianamente a ottimizzare la nostra vita: essere più produttivi, più attraenti, più intelligenti, più resilienti. È un messaggio allettante la promessa che possiamo trasformarci, che possiamo ottenere di più e diventare versioni "migliori" di noi stessi. Ma questa ossessione per la performance individuale nasconde una realtà più complessa, spesso poco discussa.
Auto-miglioramento e produttività, una storia antica
Come racconta Jessica Lamb-Shapiro nel suo libro Promise Land: My Journey Through America’s Self-Help Culture, il mito dell’auto-miglioramento non è una novità. Già nel XIX secolo Samuel Smiles pubblicava Self-Help, bestseller dedicato alle storie di uomini che, con disciplina e impegno, riuscivano a emergere dalla povertà. E se guardiamo ancora più indietro, troviamo i pensieri dei filosofi stoici come Marco Aurelio, oggi spesso riproposti nei libri di self-help moderni. L’idea di fondo è sempre la stessa: la responsabilità del cambiamento è individuale e il successo dipende dalla capacità di gestire se stessi.
La pressione invisibile sulle donne
Questo modello culturale ha però effetti profondi sulla società e sulle persone, in particolare sulle donne. La narrativa dell’auto-miglioramento tende a scaricare sulle spalle degli individui la responsabilità di problemi che sono invece sistemici: conciliare lavoro e famiglia, affrontare discriminazioni o mancanza di supporti istituzionali. La pressione a essere perfette e sempre di più, migliori madri, lavoratrici impeccabili, partner sempre presenti, donne attraenti e in forma, diventa una forma di oppressione silenziosa. Non sorprende che la cultura della produttività e del miglioramento personale spesso coincida con sentimenti di ansia, inadeguatezza e isolamento. Il mito della produttività perenne ha anche un altro effetto pervasivo: ci fa dimenticare il valore del tempo e della relazione con gli altri. Quando ogni momento è visto come un’occasione da ottimizzare, la vita perde spazio per la lentezza, il riposo e la cura reciproca. Come sottolinea Lamb-Shapiro, molte forme di auto-aiuto sono orientate alla performance individuale, trascurando l’importanza della comunità. Cercare di aiutarsi da soli spesso significa rinunciare al sostegno degli altri e all’opportunità di creare legami sociali significativi, contribuendo a una sensazione diffusa di solitudine e alienazione.
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Il significato di una vita felice
Mettere in discussione il mito dell’auto-miglioramento non significa rifiutare la crescita personale, ma ridefinire cosa significhi vivere bene. Significa valorizzare il tempo come risorsa preziosa, promuovere il benessere collettivo e costruire sistemi di supporto reali, invece di lasciare ogni individuo solo a gestire le sfide della vita. Significa riconoscere che molte delle difficoltà che affrontiamo non derivano da carenze personali, ma da disuguaglianze sociali, strutture economiche ingiuste o mancanza di politiche di sostegno. In questo contesto, il vero miglioramento personale non è quello misurato in obiettivi quotidiani o in checklist di produttività, ma quello che consente di vivere in equilibrio, prendersi cura di sé senza colpevolizzarsi, investire nelle relazioni, riconoscere i propri limiti e accettare la vulnerabilità come parte naturale dell’esperienza umana. Solo così possiamo trasformare il concetto di auto-miglioramento da trappola culturale a strumento autentico di benessere.


















































