Anche la solitudine è un business E noi siamo i clienti perfetti

Siamo soli. Lo sappiamo ma ci vergogniamo a dirlo. Così ce lo teniamo dentro, come si fa con una colpa. Facciamo finta che vada tutto bene, ma la verità è che abbiamo fame. Fame di contatto, di senso, di qualcuno che ci guardi negli occhi senza distrarsi. Mentre proviamo a colmare il vuoto con scroll, app, assistenti vocali e cene per uno, c’è qualcuno che quel vuoto lo misura, lo analizza, lo monetizza. Perché dove c’è una ferita, c’è un business model pronto a curarla. E noi - pezzi sparsi di una società disgregata nella quale la solitudine è un’esperienza cronica, sistemica, epidemica - siamo diventati clienti perfetti. Docili, frammentati, e sempre più dipendenti da chi ci vende compagnia in scatola. Benvenuti nel capitalismo dell’assenza, dove l’amore è un algoritmo, l’amicizia un servizio premium e la connessione… un’illusione.

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La solitudine, un’epidemia invisibile

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, 100 persone muoiono ogni ora nel mondo per le conseguenze fisiche e psicologiche legate alla solitudine. È come il fumo, dicono. Ciò che uccide, però, non è solo l’essere soli, ma il sentirsi soli. Una differenza sottile e feroce. I dati sono preoccupanti: in Europa, la metà della popolazione si sente sola. Tra i giovani europei, il 57% riferisce di sperimentare una solitudine da moderata a grave. Negli Stati Uniti, la maggioranza degli adulti ha ammesso di essersi sentita profondamente sola nel corso dell’ultimo anno. Tra gli adolescenti, una persona su cinque vive questa condizione in modo regolare. Non è un’emozione passeggera. La solitudine cronica influisce direttamente sul nostro cervello, sul sistema immunitario, sul cuore. Aumenta il rischio di malattie cardiovascolari, diabete, depressione e demenza. Non è solo una questione emotiva, è un fatto biologico, sociale, economico. È una minaccia alla salute pubblica. E come ogni crisi sistemica, crea diseguaglianza. Colpisce più duramente chi è già fragile (migranti, anziani, giovani precari, disabili, persone LGBTQIA+) e peggiora il divario tra chi ha accesso a relazioni di qualità e chi deve accontentarsi di surrogati affettivi, spesso a pagamento.

Soli insieme: la società antisociale

Lo scrittore Derek Thompson ha definito questa epoca "The Antisocial Century". Una società in cui, paradossalmente, l’iperconnessione digitale ha atomizzato le relazioni, portando al collasso la loro stessa architettura. Restano due categorie di legami: quelli intimi, sempre più rari e fragili, e quelli digitali, che durano il tempo di un like, di un messaggio visto e ignorato. Tutto quello che stava nel mezzo, come il saluto del vicino, il barista che ti chiede "il solito?" o il collega con cui parlavi durante la pausa è scomparso. Evaporato. Con ognuno di questi rapporti intermedi è svanita la rete invisibile che dava senso alla parola "comunità". Nel frattempo l’urbanizzazione selvaggia, il lavoro da remoto, il nomadismo forzato e il collasso dei legami familiari hanno fatto il resto. Famiglie ridotte all’osso, quartieri diventati dormitori, città che sembrano parcheggi di esseri umani solitari con la testa negli auricolari. Il mantra dell’autosufficienza ha preso il posto del bisogno reciproco. Ci hanno convinti che dipendere da qualcuno fosse una debolezza, che la forza stesse nell’isolamento, nell’essere completi da soli. È una bugia. 

@bigthink

The anti-social century

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La solitudine in Italia

In Italia, il fenomeno assume sfumature particolari. Secondo i dati raccolti da UnoBravo, il 25% degli italiani tra i 25 e i 34 anni si sente solo, mentre il dato sale al 33% tra gli over 65. È un Paese che invecchia, ma che invecchia male, spesso da solo. Le città diventano sempre più grandi e impersonali, mentre i legami si sfilacciano. Famiglie piccole, relazioni precarie, lavoro instabile, e un welfare relazionale che semplicemente non esiste. In un recente sondaggio, oltre il 40% degli under 30 ha dichiarato di sentirsi abbandonato. Non mancano solo le occasioni, ma anche i luoghi per connettersi. La pandemia ha fatto da acceleratore, ma il terreno era già pronto: abbiamo confuso l’indipendenza con la solitudine, l’efficienza con l’isolamento. E il sistema non aiuta. Mentre il disagio cresce, lo Stato arranca. Non esiste una strategia nazionale contro la solitudine. Eppure le implicazioni sanitarie, psicologiche ed economiche sono evidenti: aumento del consumo di psicofarmaci, uso e abuso dei social, crescita delle dipendenze. Di fronte a questo scenario, l’unica risposta concreta arriva, ancora una volta, dal mercato. App di incontri, chatbot italiani, piattaforme di supporto psicologico digitale. Un piccolo boom di servizi che, in molti casi, fanno ciò che le istituzioni non sanno più fare: ascoltare.

Solitudine e capitale: come monetizzare il bisogno di connessione

La disperazione ha un valore. I sentimenti diventano dati, i dati diventano insight, e gli insight si trasformano in prodotti. In un mondo che ha imparato a trasformare ogni mancanza in consumo, anche la solitudine è diventata una miniera da cui estrarre pepite d’oro. Il mercato della solitudine ha un valore stimato in oltre 500 miliardi di dollari. Si sviluppa in ogni direzione: app di incontri (17 miliardi di dollari previsti entro il 2030), chatbot e amici virtuali (140 miliardi), piattaforme per la salute mentale (più di 20 miliardi previsti entro il 2033), animali domestici e servizi correlati (oltre 400 miliardi). Senza dimenticare i robot sociali, le terapie digitali, le residenze assistite iperconnesse, i corsi di gruppo, le esperienze condivise confezionate come pacchetti turistici dell’anima. Ogni soluzione viene venduta come sollievo, ma spesso è solo una pausa nel dolore. E in ogni abbonamento, in ogni chat con un’intelligenza artificiale empatica, si nasconde un’idea di fondo: non c’è nessuno che ti voglia davvero, ma noi possiamo venderti l’illusione che ci sia. La solitudine viene trasformata da ferita a opportunità di crescita... del fatturato.

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La solitudine come servizio (in abbonamento)

Nel frattempo, le aziende innovano. Alcune start-up offrono cene tra sconosciuti, corsi di cucina relazionali, coworking con community. App come Bumble BFF propongono incontri platonici. Character.ai, che ha ricevuto un investimento di 150 milioni di dollari, permette di chattare con qualsiasi personaggio. Replika consente ai suoi oltre 35 milioni di utenti di creare il proprio compagno virtuale. Altri robot sociali, come ElliQ o Celia, accompagnano anziani nelle loro giornate. Timeleft organizza cene tra sconosciuti in 62 Paesi. Groundfloor, in California, ti offre eventi sociali per 200 dollari al mese. Rent-A-Friend ti trova un compagno umano a pagamento. Contemporaneamente crescono le piattaforme digitali per la salute mentale come BetterHelp, che offre accesso a oltre 28.000 terapisti in più di 200 paesi. Tutto viene offerto come soluzione temporanea a un problema permanente. Ma ciò che è più inquietante è la crescente dipendenza da relazioni simulate. Gli utenti sviluppano legami emotivi reali con entità fittizie. Alcuni dichiarano di aver intrapreso relazioni sentimentali con chatbot. In Giappone e negli Stati Uniti, il fenomeno ha già assunto proporzioni culturali.

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Il costo della solitudine

Le aziende che prosperano in questo contesto, dai chatbot agli amici in affitto, dalle piattaforme di supporto psicologico alle comunità digitali, non sono gratuite. L’inclusione è un privilegio di chi può pagare. Intanto cresce il divario emotivo: tra chi può permettersi un’app che ascolta e chi parla con le pareti. Tra chi può vivere un co-living in centro e chi resta isolato in periferia. La solitudine non è democratica. Come ogni prodotto capitalista, viene distribuita in modo iniquo. E produce dolore. Ma la solitudine non è solo un dramma personale. È un’emergenza collettiva. Ha un costo sociale ed economico. Secondo il Center for BrainHealth, solo l’assenteismo da solitudine costa ogni anno agli Stati Uniti 460 miliardi di dollari. E non è finita. Le persone sole si ammalano di più, guariscono più lentamente, lavorano peggio, studiano meno, vivono meno. Le famiglie si sgretolano, le comunità si svuotano, i servizi sociali si intasano. È una spirale. Se non la si ferma, travolge tutti.

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La solitudine è politica

Il sistema che promette di curare la solitudine è lo stesso che la genera. Ha trasformato l’isolamento in modello, poi in mercato. Precarietà, individualismo, urbanizzazione disgregata, digitalizzazione spinta: non sono errori. Sono strategie. E ora che il dolore relazionale è endemico, il mercato non vuole guarirlo. Lo gestisce, lo vende, lo rinnova in abbonamento. Più ci affidiamo a relazioni sintetiche, meno sappiamo reggere quelle reali. Più ci abituano a chatbot empatici, meno tolleriamo l’imprevedibilità dell’altro, la noia della presenza, la fatica dell’empatia. È un disallineamento emotivo. E non è solo etico. È politico. Perché chi resta solo paga tutto: salute, tempo, senso. Mentre qualcun altro monetizza. La solitudine è il frutto marcio di un sistema che ci ha convinti che l’indipendenza sia tutto, che la vulnerabilità sia debolezza e che i legami siano optional. Ma non lo sono. Sono l’aria che respiriamo. La verità è che l’essere umano ha bisogno degli altri per non disintegrarsi. E in un mondo che ci isola, ricostruire i legami diventa un atto rivoluzionario. La domanda finale, allora, è questa: vogliamo davvero affidare le nostre emozioni a un algoritmo? Vogliamo che la nostra fame d’amore diventi la rendita di qualcun altro? O vogliamo tornare a guardarci negli occhi, a costruire luoghi, tempi, politiche e relazioni che ci permettano di non essere più soli? Perché, in fondo, anche la solitudine è una scelta politica. E chi non la fa, la subisce.