L'anatomia della rabbia sui social Rage bait è la parola dell’anno, a conferma che l’indignazione è il nuovo motore dell’engagement

C’è stato un momento in cui internet prometteva connessione, dialogo, persino empatia. Oggi, sembra funzionare meglio quando ci fa arrabbiare. È in questo scenario che entra in gioco il rage bait, che l’Oxford University Press ha decretato come parola dell’anno del 2025 (con il brain rot del 2024, un chiaro segnale della strada intrapresa dall’ecosistema digitale). Con rage bait - letteralmente "esca della rabbia" - si identificano in particolare quei contenuti deliberatamente progettati per provocare indignazione, rabbia e reazioni viscerali. Non per informare o aprire un dibattito, ma per generare engagement. E basta.

Rage bait e clickbait: le esche del web

Il rage bait non è semplicemente il nuovo clickbait. Se il clickbait gioca sulla curiosità - "Non crederai mai a chi si è appena lasciato" - il rage bait punta su un’emozione molto più potente e contagiosa: l’indignazione. È una strategia sottile, perché non richiede semplicemente attenzione passiva, ma una reazione immediata. D’altronde, commentare per dissentire è pur sempre commentare. E ogni commento nutre l’algoritmo, indifferentemente. Il motivo per cui tutto questo funziona è duplice. Da un lato c’è la psicologia: la rabbia è un’emozione primaria, rapida, difficile da ignorare. Dall’altro ci sono gli algoritmi, che non distinguono tra engagement positivo o negativo. Come già detto, se commenti per criticare stai comunque partecipando, e quindi dando risalto al contenuto. È un discorso talmente attuale e pervasivo che viene affrontato, tra le altre cose, anche in Rifiuto, romanzo di Tony Tulathimutte edito in Italia da edizioni e/o

@mila_n_miley She knows she’s not allowed to bite me #ragebait original sound - EpicGamingMusic

La monetizzazione della rabbia

Ed è qui che il rage bait diventa inquietante. Non è solo una tecnica, ma una vera e propria economia dell’attenzione basata sul conflitto. La rabbia viene incentivata, normalizzata e monetizzata. Litigare - o meglio, provocare - diventa intrattenimento, indignarsi una forma di partecipazione. In questo scenario, il confine tra provocazione consapevole e manipolazione è sempre più sottile. Alcuni creator utilizzano il rage bait in modo strategico, quasi performativo, consapevoli del meccanismo. Altri lo subiscono, diventando bersagli di ondate di odio che partono da un contenuto estrapolato e decontestualizzato. In entrambi i casi, il risultato è lo stesso: una conversazione pubblica sempre più polarizzata, meno complessa, più reattiva che riflessiva.

I diversi gradi del rage bait: dal gioco dell’assurdo allo strumento di potere

Chiaramente, esistono diversi gradi di provocazione. La prima è quella soft, quasi surreale, che gioca sull’assurdo più che sullo scontro diretto. Ne è un esempio lampante Chiara Facchetti, più di 800 mila follower su TikTok: comprare degli iPhone alle proprie gattine o far guidare il proprio marito per quattro ore solo per mangiare un pain au chocolat non è una provocazione violenta, ma è abbastanza fuori scala da attivare commenti indignati e increduli. È un rage bait gentile, che non divide davvero, ma stimola una reazione emotiva basata sul "ma davvero?". Anche qui, però, il meccanismo è lo stesso: il contenuto funziona perché sembra irragionevole, e quindi irresistibile da commentare. Poi c’è il rage bait identitario, costruito intorno a un personaggio. La content creator Rockandfiocc ne è un esempio emblematico. Più o meno consapevolmente, ha creato una figura pubblica che vive sul filo del rasoio: nonostante ripetuti scivoloni e shitstorm, non ha mai smesso di dire ciò che pensa - o ci dice di pensare, perché il succo sta tutto qui - continuando a guadagnarsi un posto d’onore nelle conversazioni del (e sul) web. In questo caso il rage bait è quasi performativo: chi la segue sa cosa aspettarsi, chi la trova antipatica contribuisce comunque alla sua visibilità.

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Ad un livello molto più estremo, troviamo una forma di rage bait che potremmo definire sistemica. Donald Trump ne è forse il rappresentante più illustre. Prima su Twitter (da cui è stato censurato più volte), oggi sul suo social Truth, Trump utilizza il rage bait come strategia comunicativa centrale. Le sue affermazioni sono spesso così estreme da sembrare fake, e invece (sigh) sono reali. Il punto non è la veridicità, ma l’impatto che mirano ad avere. In questo modo, Trump non segue il flusso: lo crea. Alza così tanto il tiro da costringere media, utenti e avversari a reagire. È il rage bait portato al massimo grado, dove la rabbia non è più un effetto collaterale ma uno strumento di potere.

@lunauk_ can i call myself the rage bait queen now #marketing #socialmediamanager #smm original sound - Luna

L’antidoto alla rabbia

E allora la domanda non è solo perché il rage bait funzioni, ma quanto ci costi. In termini di benessere mentale, di qualità della conversazione, di capacità critica. Perché fruire di contenuti che non ci arricchiscono, ma suscitano in noi sensazioni negative? Perché partecipare ad una discussione che non ha mai l’obiettivo di essere costruttiva? Un antidoto alla rabbia esiste, in questi casi: ignora e passa oltre. L’algoritmo, ad un certo punto, capirà. L’indignazione, invece, conservala per quando serve davvero. Nella vita reale ne abbiamo ancora molto bisogno.