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Dov’è finito il rainbow washing?

Di tutto questo… è rimasta solo una t-shirt

Dov’è finito il rainbow washing?  Di tutto questo… è rimasta solo una t-shirt

Il mese del Pride di quest’anno ha un’energia diversa, più grigia, più cupa. Sembra quasi che l’arcobaleno si sia perso, anzi, più che una sensazione, è una constatazione: l’assenza quasi totale di rainbow washing all’interno del sistema moda manda un messaggio silenzioso, ma assordante. Se negli anni scorsi, dal primo giugno, gli occhi del popolo di internet venivano quasi accecati dai loghi brandizzati in versione arcobaleno, nel 2025, come ha notato Business of Fashion, regna il beige (nel migliore dei casi). La situazione ha fatto un cambio di rotta totale dalla situazione di qualche anno fa, dove la presenza di loghi multicolore ha destato sospetto di opportunismo da parte delle multinazionali, che ogni giugno lanciavano collezioni spesso di cattivo gusto ma capaci, in un modo o nell’altro, di riportare l’attenzione sull’importanza del Pride nell’immaginario collettivo (e, soprattutto, elitista) del lusso.

Come dimenticare la collezione 2018 di Burberry, quando l’allora direttore creativo Christopher Bailey decise di imprimere i colori dell’arcobaleno su trench, cappotti e cappelli? O la collezione di Loewe del 2020 dedicata interamente a Divine, una delle drag queen più famose di sempre, con tanto di manichini personalizzati con il suo make-up? Anche Versace, fino allo scorso anno, ha puntualmente creato capsule collection per il mese del Pride, spesso limitandosi ad alterare graficamente il logo della Maison o la celebre trama Barocco con tocchi multicolor. Persino LVMH, fino al 2024, aveva messo in piedi un intero palinsesto di eventi e talk sull’importanza dei diritti LGBTQIA+, ospitati negli store delle principali capitali mondiali. Quest’anno? Tutto tace. In molti hanno concesso il beneficio del dubbio, aspettando almeno una settimana dall’inizio di giugno per vedere se qualche brand sarebbe uscito allo scoperto, magari con un’effimera t-shirt arcobaleno venduta a prezzi esorbitanti. Ma non è arrivato nulla. L’unico nome del lusso ad andare controcorrente è stato Diesel, che ha celebrato il Pride con una capsule realizzata in collaborazione con l’artista Tom of Finland. Anche in questo caso, la direzione artistica è rimasta volutamente criptica, lasciando che fosse l’osservatore a coglierne il messaggio, senza niente di troppo diretto. Che la moda abbia scelto di voltare le spalle alla comunità LGBTQIA+, ora che ha già capitalizzato sull’hype e sulla visibilità garantita dagli anni passati? 

La decisione da parte della maggior parte delle Maison di lusso non è del tutto inaspettata: d’altronde, il clima politico e sociale, influenzato dai governi conservatori emersi nell’ultimo anno, ha contribuito a creare un contesto sempre più ostile verso le istanze progressiste. Tra le stagioni 2024/2025 si nota anche una netta riduzione di dichiarazioni politiche esplicite, progetti visivi audaci firmati da artistə queer, casting di modelli e modelle trans nelle campagne e sfide aperte alle norme di genere. A tutto questo si affianca il ritorno marcato a canoni di bellezza obsoleti, come si è visto sulle passerelle recenti, dove ogni parvenza di inclusività si è dissolta nell’etere. A resistere sono rimasti solo alcuni brand indipendenti dal DNA intrinsecamente queer, come Conner Ives e Willy Chavarria, che hanno fatto della ribellione il fulcro delle loro ultime collezioni, in netto contrasto con il silenzio delle grandi Maison e dei conglomerati del lusso. Se solo pochi mesi fa la maglia “Protect the Dolls”, dedicata ai diritti delle persone trans, era diventata virale sui social e indossata dalle più celebri star di Hollywood, oggi di quel grido di protesta resta solo l’estetica. Un gesto isolato, privo di un effetto domino capace di influenzare, anche solo a livello mediatico, i grandi nomi del sistema moda, nonostante la sua importanza etica. 

Dopo anni di accuse da parte di attivisti e influencer LGBTQIA+, che bollavano le campagne Pride come operazioni di marketing opportuniste, oggi quel vuoto comunicativo risuona ancora più amaro. Lo conferma anche Andrea Semeghini, fondatore di LAUD END PRAUD, una realtà indipendente che da anni organizza eventi e talk legati alla cultura queer ed è strettamente legata all'industria del fashion italiana, quest’anno anche parte del calendario ufficiale di CMI per un evento apposito tra cultura queer e fashion week: «Rispetto allo scorso anno, la differenza è abissale. Nel 2024 eravamo stati contattati da tantissimi brand, anche molto grandi, che vedevano nel nostro evento un’opportunità coerente con il proprio posizionamento, c’era entusiasmo e volontà di investire. Quest’anno, quelle stesse realtà si sono tutte tirate indietro.» Una tendenza che non riguarda solo le piccole realtà: come sottolineato da Semeghini, anche le principali manifestazioni Pride in Italia, come le parate di Roma o Milano, hanno registrato un calo drastico di investimenti da parte dei brand, in alcuni casi fino al 40%.

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Per anni il rainbow washing è stato criticato come un’operazione ipocrita, un modo per le aziende di capitalizzare sull’estetica del Pride senza mettere in discussione realmente le proprie pratiche o sostenere in modo concreto la comunità LGBTQIA+. L’inclusività diventava un elemento decorativo, utile solo a generare engagement e conversioni. Si trattava di strategie commerciali camuffate da impegno sociale, più utili a ripulire l’immagine dei brand che a incidere sulle disuguaglianze, un po’, come spesso definisce Trump, sforzi inutili di “diversity, equity and inclusion”. Eppure, nel 2025, l’assenza di tutto questo lascia un vuoto ancora più evidente. Come ha sottolineato Semeghini, il problema non è solo economico ma profondamente culturale: quelle che per anni erano considerate battaglie condivise vengono oggi relegate a temi di nicchia, ritenuti divisivi o persino scomodi per il posizionamento aziendale. L’interesse strategico verso la comunità queer sembra essere scomparso non appena è venuto meno il ritorno economico garantito, o quantomeno l’attenzione mediatica positiva. In un contesto dove i gruppi del lusso sono sempre più in perdita e il conservatorismo sembra aver sopraffatto l’intero sistema moda, sia creativamente che economicamente, l’unica soluzione era davvero quella di dimenticarsi quella comunità che da decenni lavora, crea e spinge culturalmente l’intero panorama del fashion? Non si tratta solo della fine del rainbow washing, ma di una conscia scelta strategica che solleva interrogativi profondi sul senso di responsabilità del settore e sul valore che viene attribuito a certe lotte, una volta che smettono di essere redditizie.