Francesca Beretta: "Amo profondamente l'imperfezione" Intervista alla founder e direttrice creativa di The Nour

Francesca Beretta: Amo profondamente l'imperfezione Intervista alla founder e direttrice creativa di The Nour

Nel 2022 Francesca Beretta ha fondato The Nour. Il punto di partenza? La fascinazione per i contrasti, quelli tra luce e ombra, struttura e rovine, libertà e identità. Una ricerca di significato personale, che poi si è evoluta in un linguaggio e in una forma ben precisa, con capi di abbigliamento che richiamano emozioni, ricordi e frammenti e li trasformano in cose tangibili. Abbiamo fatto una chiacchierata con lei, che ci ha raccontato la collezione SS26.

Intervista a Francesca Beretta, founder e direttrice creativa di The Nour

Questa collezione nasce "nel silenzio sospeso fra sogno e risveglio". Qual è stato il primo sogno, o la prima immagine, che ha dato origine a The Nour SS26?

Ho sognato di camminare dentro il dipinto Forest and Sun di Max Ernst. Mi muovevo tra quelle forme dense, quasi liquide, dove la foresta e il sole si intrecciano in un ritmo ipnotico. Da quell’immagine è nata l’energia della collezione: i toni grigi, bruciati, solari, ma anche la tensione fra ombra e luce. È stato come abitare un paesaggio mentale, un luogo dove la materia e l’immaginazione si fondono.
 
 
Hai parlato di una "vampira moderna": chi è oggi questa figura per te? Una musa, un simbolo o una parte di te stessa?
 
È prima di tutto un simbolo, ma inevitabilmente rappresenta anche una parte di me. Nella figura del vampiro vedo la morte della vita passata, la trasformazione necessaria per rinascere. È un essere che si rigenera attraverso il desiderio, che attraversa la notte per tornare alla luce. La "vampira moderna" non è un mostro: è una donna che ha imparato a lasciare andare, a nutrirsi di esperienze e a trasformarle in forza.
 
Nei tuoi capi c’è un dialogo costante tra luce e ombra. Cosa rappresentano per te questi due poli?
 
Luce e ombra convivono dentro ognuno di noi. Sono il conflitto interiore che ci rende vivi. Ogni persona porta dentro entrambe le forze, e solo accettandole possiamo esprimerci davvero. Nei miei capi questo dialogo si manifesta attraverso i contrasti: trasparenze e opacità, tagli netti e linee morbide. È un modo per dare forma visibile a ciò che normalmente rimane invisibile.
 
Le tinte sono fatte a mano, ogni variazione è unica: è più difficile controllare o lasciare che il caso faccia la sua parte?
 
Amo profondamente l’imperfezione. Tutto ciò che è troppo perfetto diventa, per me, prevedibile e sterile. Penso a un viso completamente ritoccato, senza una piega, senza segno: perde quella vibrazione che lo rende inimitabile. Allo stesso modo, nei miei capi lascio che il caso intervenga, che il colore si muova da solo. L’imperfezione diventa un linguaggio, un atto di libertà, e genera una bellezza che non si può replicare.
 
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C’è un capo della collezione che consideri "il cuore" del progetto? Quello che sintetizza l’essenza di The Nour SS26?
 
Credo che il capo più rappresentativo sia il cappotto in lino e cotone con le aperture a taglio vivo. In esso si ritrova tutto il senso della collezione: il taglio netto che interrompe l’armonia, il rigore del doppio collo che si sporca di naturalezza, la delicatezza del materiale in contrasto con la forza del design. È un pezzo che racconta la dualità, il dialogo costante tra controllo e spontaneità, tra struttura e respiro.
 
I riferimenti al Surrealismo (Dalí, Carrington, Man Ray) sono fortissimi se la tua collezione fosse un’opera d’arte, quale sarebbe?
 
Ritornerei a Max Ernst, e ancora a Forest and Sun. Quel quadro è stato l’origine e rimane il mio punto di riferimento visivo e emotivo. Amo il modo in cui la natura e la luce si affrontano e si abbracciano, il senso di mistero che nasce dalle sovrapposizioni. È la stessa tensione che cerco di tradurre nei tessuti e nelle forme della collezione. Anche le linee delle opere di Leonora Carrington hanno avuto un forte impatto sulle silhouette dei capi. Nelle sue opere è evidente la componente liberatoria e  fiabesca tipica del sogno ed è quelle che cerco anch’io di rievocare attraverso i miei capi. 
 
Come si traduce, per te, il concetto di "artigianalità" nel 2025, in un mondo che corre verso l’AI e l’iperproduzione?
 
Per me l’artigianalità è una scelta consapevole e politica. Significa rallentare, restituire valore al gesto e al tempo. Le mie collezioni nascono sempre con un numero limitato di capi - trenta, trentacinque al massimo - perché voglio che ogni pezzo abbia una presenza reale, un’identità forte. L’intelligenza artificiale può essere un supporto interessante, ma non potrà mai sostituire l’atto creativo, che nasce dall’esperienza, dal corpo, dall’anima. Ogni abito che creo porta dentro la mia storia: è lì che avviene la connessione con chi lo indossa.
 
Se potessi descrivere questa collezione con tre parole soltanto, quali sarebbero?
 
Sovversiva. Onirica. Accurata. Tre parole che raccontano un equilibrio fragile e potente: la ribellione del sogno, la precisione del gesto, la libertà di reinventarsi.