Il paradosso del clean grunge make-up Dalla pioggia di Seattle ai feed di TikTok

Kurt Cobain mi ha salvato la vita. Non in senso figurato da poster motivational, non per nostalgia costruita a posteriori. Ho attraversato gli anni del liceo dentro una t-shirt dei Nirvana portata come seconda pelle. Sopra i jeans sdruciti, con le All Star consumate e la camicia di flanella annodata in vita. Non era una maglietta pescata distrattamente dallo scaffale di una catena low cost, scelta perché "stava bene con tutto" o perché improvvisamente tornata di moda grazie a un algoritmo. No, indossarla significava schierarsi. Era dichiarare apertamente di non voler appartenere al conformismo dei compagni di classe, gridava al mondo che non volevo adattarmi, che appartenevo a un’altra tribù. Quella t-shirt era insieme un manifesto politico ed estetico ma anche, forse, un atto d’amore disperato. Un amore gridato a squarciagola per Nirvana, Alice in Chains, Soundgarden, Pearl Jam, Temple of the Dog e per tutte quelle voci che, negli anni ‘90, sembravano capire meglio di chiunque altro il caos che ribolliva dentro di me. 

La nascita del clean grunge make-up è una contraddizione di termini?

Quel filo emotivo non si è mai davvero spezzato. Quando vedo una ragazzina con addosso la stessa maglia che accompagnava le prime cicatrici della mia crescita, mi sorprendo a provare orgoglio, come se un’eredità sotterranea fosse arrivata fino a lei. Ma il sentimento evapora in un lampo quando mi accorgo che per lei i Nirvana non sono altro che un nome antico. Peggio ancora quando scopro che quella stessa estetica, nata come rigetto viscerale e rabbioso, viene oggi ripulita e impacchettata sotto un’etichetta che suona come una bestemmia: clean grunge make-up. Una formula che pretende di addomesticare l’iconografia del disordine, sterilizzandola in un’estetica patinata che nulla ha a che fare con le occhiaie gonfie dopo una notte insonne, le labbra sbavanti di un bacio alcolico o l’eyeliner colato durante un concerto.

Il grunge non è mai stato pulito

Il grunge, quello vero, non è nato per piacere. È nato dal freddo umido di Seattle, da felpe slabbrate pescate nei negozi dell’usato, da maglioni indossati per necessità più che per stile. Michael Lavine, fotografo e amico dei Nirvana, lo dice chiaramente: la gente non aveva soldi, vestiva così per proteggersi dal clima. E Kurt Cobain, con i suoi cardigan slabbrati e gli occhiali di plastica, non stava inventando un trend, ma stava mostrando il disagio. La sua era la divisa di chi non voleva e non poteva competere con i codici del glamour. Lontano dall’idea di “look da copiare”, il grunge era un’anti-moda che si reggeva sulla sua stessa negazione. Non c’era nulla di levigato, nulla di curato, nulla che potesse essere definito “clean”. Ecco perché parlare di clean grunge make-up oggi suona come una contraddizione in termini, un ossimoro spinto al parossismo.

Dal “Kinderwhore chic” al soft goth: Courtney Love

Per capire la metamorfosi del grunge in chiave femminile bisogna passare da Courtney Love, sacerdotessa di quello che venne chiamato “kinderwhore chic”. La sua presenza sul palco non era solo musica, era un gesto politico che passava attraverso un’estetica disturbante, a metà tra fragilità e violenza. Come ricorda Edward Meadham in bel pezzo di Another Magazine: “Era scioccante vedere una donna alla guida di un gruppo di altre donne potenti, suonare la chitarra e urlare. Era ancora più scioccante vedere una donna fare tutto questo usando e sovvertendo il contesto del linguaggio visivo della femminilità: i capelli ossigenati e ricciolini, il rossetto, i delicati abiti antichi, le tiare, le Mary Jane e i calzini con le balze. Courtney evocava un'inquietante illusione di bellezza infantile e di cruda rabbia sessuale… è stata la prima celebrità femminile da molto tempo a non vergognarsi di occupare spazio.” Quando si parla di grunge make-up è Love la reference con cui confrontarsi, insieme a Kathleen Hanna, Kat Bjelland, Kim Deal, Jennifer Finch, Tina Bell e molte altre protagoniste della scena musicale dell’epoca.

Dal fango al filtro

Negli anni ‘90 bastava una matita nera sbavata (il trucco era prendere un accendino e scaldare appena la punta della matita per renderla più morbida), il rossetto vinaccia preso dalla trousse di tua madre (o persino le labbra nude) e una pelle stanca da notti insonni per dire al mondo che non volevi farne parte. Oggi, invece, il grunge torna come simulacro levigato. La pelle deve essere luminosa, perfetta, “glowy”, in contrasto con uno smokey eye costruito con maniacale precisione. Le labbra sono scure, ma subito addomesticate da un gloss che brilla sotto la ring light. La trascuratezza diventa posa, l’imperfezione diventa tutorial, la ribellione diventa hashtag. Il risultato è un caos calcolato, studiato al millimetro, che non ha più nulla della disperazione originale. È un grunge filtrato e ottimizzato, pronto a finire nella cartella “salvati” di Pinterest, ma incapace di restituire l’alienazione, il “teen spirit” che lo aveva generato.

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@joherrstedt Babe wake up, grunge makeup is back in style according the trend experts (whoever they are)! What a time to be a grown up emo Anyway here’s a quickie look and technically it’s too modern looking but I was a literal child in the 90’s so I didn’t have the privilege to experience true grunge anyway. But as the French say, c’est la vie . Shoutout to the faux moles that kept rubbing off because I’m too lazy to cover up pimples with concealer (as per ushe) . #anticleangirlaesthetic #grungemakeup #makeuptrends2024 #messymakeup #messymakeuplook #rockstargirlfriendmakeup #rockstarmakeup #makeuptrend #fyp #fürdichseiteシ #fördigsidansverige #90sgrunge #grungeinspired Change (In the House of Flies) - Deftones

Cos’è il clean grunge make-up e come realizzarlo

A differenza della sua matrice originaria, che non si curava di apparire coerente o attraente, il clean grunge make-up è un paradosso studiato nei minimi dettagli. Non più eyeliner sbavato applicato con le dita tremanti davanti allo specchio di un bagno scolastico, ma un fumo nero sfumato con pennelli di precisione. Non più labbra screpolate dal freddo, ma vinaccia o mora sigillate da gloss lucidi che catturano la luce. Non più incarnati spenti da notti insonni, ma pelli perfette e luminose che esaltano il contrasto con gli occhi drammatici. È un trucco che gioca a sembrare trascurato, ma è calibrato per piacere alle fotocamere degli smartphone e ai feed di TikTok. Per realizzarlo bastano matite nere morbide sfumate con cura, ombretti scuri per stratificare l’effetto smoky, labbra scure lucidate con gloss e una pelle resa quasi traslucida con contouring leggero

La parabola prevedibile delle sottoculture e il grunge oggi

Non è la prima volta che accade. Marc Jacobs lo aveva dimostrato già nel 1993 con la collezione Perry Ellis che portò il grunge sulle passerelle, trasformando l’anti-moda in moda e pagando con il licenziamento. Da allora, la parabola è sempre la stessa: le sottoculture nascono come detonazioni, vengono fagocitate dall’industria, poi ri-confezionate in forme innocue e consumabili. Il clean grunge make-up è solo l’ultimo capitolo di questa storia, un ossimoro estetico che conferma come il sistema non distrugga le ribellioni, le addomestichi. In altre parole: il grunge 2.0 non è più un rifiuto del sistema, ma un linguaggio estetico per giocare con la memoria, tra nostalgia anni ’90 e ossessione contemporanea per il controllo.

Dal “non mi importa” al “piaccio a tutti”

La differenza tra ieri e oggi sta tutta in una frase. Il grunge degli anni '90 diceva: “Non me ne frega niente di piacerti”. Il clean grunge del 2025, invece, sembra voler rassicurare: “Guarda, piaccio a tutti, ma con un’ombra di malinconia, di vissuto e sdrucito che fa chic”. È la ribellione che non spaventa più nessuno, la trasandatezza calcolata per piacere all’algoritmo, la libertà che smette di puzzare di fumo e sudore per sapersi vendere come mood board. E così, un’estetica che un tempo era ferita aperta diventa cicatrice decorativa. Non più grunge, ma la sua eco levigata. Non più urlo, ma sussurro estetizzato. Una ribellione che non sporca, non macchia e non disturba. Una ribellione che non è più ribellione. E, anche ad una cinica come me, fa un po’ male.