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Il female gaze secondo Sofia Coppola

I codici estetici di una regista divenuta icona

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Quando basta intravedere il fotogramma di un film per capire quale regista ne sia il fautore, vuol dire che il regista in questione è stato in grado di creare qualcosa di significativo, nuovo e personale, un mondo a sé in cui i dettagli e le trame variano da pellicola a pellicola pur restando magicamente riconoscibili. Sofia Coppola con il suo “female gaze” - come lo ha definito lei stessa - indugia su piramidi di macarons dai toni pastello, file di scarpe di raso, un paesaggio di trucchi e profumi che in The Bling Ring prende una piega perversa e racconta le adolescenti come nessun’altro. «Era una specie di cruccio - ha dichiarato - i film per adolescenti non rispettavano il pubblico, la loro qualità era pessima. E per fare gli adolescenti sceglievano sempre i trentenni.» Per celebrare il compleanno di uno dei punto di riferimento più eclettici del cinema contemporaneo e in attesa dell'uscita del suo nuovo biopic su Priscilla Presley, ripercorriamo tre film che quanto ad estetica e costumi hanno fatto da scuola alle generazioni di registi a venire. 

Il giardino delle vergini suicida (1999)

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L'estetica di Virgin Suicides ha influenzato un'intera generazione di adolescenti annoiate in una contemporaneità in cui la rappresentazione della sessualità femminile risulta ancora castrata e problematica. Coppola ha lavorato con la costumista Nancy Steiner per riprodurre l'autentica fanciullezza degli anni '70 tra virginali abiti in pizzo, top a fascia e maxi gonne a fiori. Un immaginario talmente evocativo da guadagnarsi uno spazio permanente nella stravagante estetica di Rodarte, così come nelle collaborazioni di Coppola con l’amico e designer Marc Jacobs (le campagne Daisy dirette dalla regista fanno chiaramente riferimento al mondo delle sorelle Lisbon). Proprio come gli oggetti che costellano la vita quotidiana delle sorelle – icone della Vergine Maria e rossetti rosa – i loro outfit dimostrano le contraddizioni che hanno definito la moda adolescenziale dell’epoca: innocenza contro sessualità emergente, un reggiseno rosa che spunta su un crocifisso. Il senso di oppressione suscitato dalla rigida tutela genitoriale si estende ai vestiti: nel quotidiano tramite uniformi scolastiche tradizionali e squadrate, nella scena del ballo di fine anno grazie ad abiti lunghi e chiari, punteggiati di fiori impercettibili, a ricordare le Gunne Sax popolari tra le giovani di quegli anni. Un look casto da “casa nella prateria” prontamente smorzato dal gesto di Lux (Kirsten Dunst) quando scrive il nome del suo accompagnatore sulla biancheria intima indossata alla festa. 

Lost in Translation (2003)

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Anche se in Lost in Translation, a differenza di altre pellicole come Marie Antoinette, The Bling Ring e The Beguiled, la moda non è centrale per la costruzione dell'identità dei personaggi, Suzanne Ferriss sottolinea come i costumi del film siano indice dell’evoluzione del rapporto tra Bob e Charlotte. L'autrice, nel saggio che prende il titolo dal pluripremiato film, descrive le complessità delle riprese (27 giorni senza permessi a Tokyo), esplora le allusioni di Coppola alle belle arti, la sottile tavolozza di colori e l'uso espressivo della musica in sostituzione delle parole. Per l'iconica scena d'apertura del film, è stato scelto il fondoschiena di Scarlett Johansson in mutandine rosa trasparenti, una reference al pittore John Kacere che ritrae spesso donne in lingerie. Nella scena del karaoke, in cui Murray si cimenta in More Than This dei Roxy Music, l'attrice indossa una parrucche rosa pastello anticipando di un anno la mise di Natalie Portman in Closer. All'inizio Charlotte fa indossare a Bob una maglietta mimetica arancione a rovescio per una serata fuori, da quel momento in poi ogni capo è "segno del loro legame: lui le permette di alterare il suo aspetto". Allo stesso modo gli indumenti personali, come le vestaglie e i pigiami, cementano il loro rapporto: quando si incontrano sull'ascensore della palestra: «indossano lo stesso accappatoio in spugna bianca fornito dall'hotel. Quando dormono insieme [...] vestiti di maglioni scuri [...] la mise parallela registra in modo estempestivo la compatibilità reciproca». La solitudine dei personaggi spicca sullo sfondo di una Tokyo futurista e i costumi per la prima volta rivestendo un ruolo narrativo piuttosto che simbolico nell'immaginario di Sofia Coppola.

Maria Antonietta (2007)

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Agli Academy Awards del 2007, i costumi di Milena Canonero per Maria Antonietta hanno vinto l'Oscar, perchè, sebbene gli non fossero storicamente fedeli al guardaroba della regina consorte di Luigi XVI, la grandiosità e il lusso assoluto che emanavano era un ritratto rappresentativo di Versailles e della monarchia francese al termine della sua storia. Canonero e 6 assistenti hanno creato gli abiti, i cappelli, i vestiti e i costumi di scena, sono stati impiegati anche dieci noleggiatori e l'unità guardaroba aveva diversi autisti per il trasporto, mentre il reparto guardaroba lavorava su turni di 24 ore per tenere il passo con le richieste della produzione. Le scarpe venivano fornite da Manolo Blahnik e Pompei, centinaia di parrucche e acconciature sono state realizzate da Rocchetti & Rocchetti e i gioielli non erano da meno, con la casa francese Fred Leighton che ha fornito in esclusiva quasi 4 milioni di dollari di gemme. Secondo il London Times Magazine, all'inizio della pre-produzione Sofia Coppola ha consegnato a Milena Canonero una scatola di pastelli: «Mi ha detto: questi sono i colori che amo, così li ho usati come tavolozza - ha dichiarato la costumista - Ho semplificato il look molto pesante del XVIII secolo. Volevo che fosse credibile ma più stilizzato». Ancora oggi, a più di 15 anni dalla sua uscita nelle sale, il film si conferma un ritratto intimo delle tragiche vicende della Regina, riempiendo le bacheche pinterest con un film che incarna perfettamente il peso della moda nel decretare la riuscita dell'immaginario eterno di un film.