Donne, miti e resurrezioni pop Il filo rosso che lega l'arte alle postar, da Doechii in poi

Donne, miti e resurrezioni pop Il filo rosso che lega l'arte alle postar, da Doechii in poi

Un filo sottile lega i secoli: dalle figure del mito alle artiste pop, ogni volta che il corpo femminile decide di parlarsi addosso e parlare al mondo. Corpo come reliquia e ribellione, palcoscenico e confessionale. Dalla pittura barocca alle piattaforme digitali, l’immagine continua a oscillare tra sacrificio e potere, tra colpa e desiderio. Le artiste di oggi rifanno l’atlante delle immagini con una coscienza nuova. Sanno di essere dentro una genealogia di corpi esposti e ri-significati. Le loro voci e le loro posture diventano riscritture del mito. Così Salomè, Giuditta, Giovanna d’Arco, Medea tornano a scena trasformando la ferita in una performance di riscatto. 

Nina del Sud / Caravaggio – La vendetta dello sguardo

Nella Salomè con la testa del Battista (1607), Caravaggio spoglia il mito della sua teatralità e lo riduce all’essenziale: un volto, una testa mozzata, un corpo giovane che osserva. La scena è intima e spietata. Salomè non si compiace né si pente, è testimone di un atto irreversibile e insieme della nascita di una nuova coscienza. È lo sguardo femminile che per la prima volta restituisce la violenza subita: Caravaggio dipinge una donna che osserva, non osservata e in questo scarto ribalta l’intera iconografia della colpa.

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Nina del Sud si muove su quello stesso crinale. Nella sua Salomè, il canto diventa strumento di vendetta e di riscrittura, un modo per rispondere all’immaginario che per secoli ha trasformato le donne in superfici da interpretare. La voce, con la sua timbrica calda e tagliente, assume il ruolo della luce caravaggesca: riscopre, seziona, redime. C’è un’ironia che smonta la tragedia, una malinconia che la trattiene dal compiacimento. Il desiderio, nelle sue canzoni, è denso di un linguaggio di riappropriazione: un codice con cui parlare del potere, della vergogna e del piacere senza sottostare a nessuna di queste categorie.

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Nel gesto simbolico di chiedere la testa del profeta, Nina non uccide l’uomo ma l’idea di purezza che l’ha sempre imprigionata. La sua Salomè è un rito pagano e mediterraneo, fatto di sole, sudore e ironia dove la vendetta non è violenza ma lucidità. Come Caravaggio, Nina lavora sul chiaroscuro: tra vulnerabilità e ferocia, sacralità e sensualità, costruisce una femminilità che non ha più bisogno di essere giustificata. Nel suo universo sonoro, il sangue si fa ritmo, e la lama, melodia. Il gesto di decapitare diventa allora un atto creativo: una liberazione estetica, in cui il corpo e la voce coincidono, si difendono, si moltiplicano. Se Caravaggio dipingeva il momento in cui la bellezza si confonde con la minaccia, Nina del Sud canta l’istante in cui la minaccia si trasforma in arte ovvero dove la colpa si dissolve nel suono.

Doechii / Artemisia Gentileschi – Il gesto e la giustizia

Nel dipinto di Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne (1612–1620), il gesto è tutto. La lama che affonda non è solo arma ma linea di verità, tracciata da una mano che conosce la misura della giustizia. Artemisia, sopravvissuta alla violenza e alla marginalizzazione, dipinge non un momento di vendetta ma di lucidità assoluta. In questo equilibrio terribile e perfetto, la pittura si fa strumento di riparazione, ovvero un modo per riscrivere il corpo femminile non come vittima ma come agente del proprio destino.

Doechii, con la sua presenza scenica e la sua scrittura radicalmente autodeterminata, incarna quella stessa tensione. Le sue performance non cercano l’approvazione ma la presa di spazio: il corpo che canta, danza e domina la scena non rappresenta la femminilità, la definisce ogni volta. Se Giuditta impugna la spada, Doechii impugna il microfono e il gesto, pur mutato di forma, conserva la stessa urgenza politica e poetica. Nei suoi brani, la teatralità diventa una strategia di potere: i travestimenti, le esplosioni di ironia e rabbia costruiscono un linguaggio che disinnesca lo sguardo maschile e ribalta il paradigma del piacere.

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Come Artemisia, Doechii trasforma la ferita in grammatica, il trauma in estetica. L’una dipinge con pennellate spesse di sangue e luce, l’altra scrive con beat e parole che oscillano tra confessione e rivolta. Entrambe elaborano un’idea di giustizia che non passa per la pietà, ma per la consapevolezza del gesto: sapere dove colpire, quando fermarsi, come mostrare la forza senza perdere la grazia. Sul palco, Doechii si muove come una Giuditta del presente e ci offre una forma di giustizia scenica che è anche catarsi. L’arte, in entrambe, diventa un tribunale simbolico in cui la donna non è più oggetto del racconto ma soggetto della verità. La spada, la voce, la luce: tre strumenti per lo stesso fine trasformare il dolore in gesto, il gesto in giustizia.

Nava / Millais / Le Amazzoni – La fede nel fuoco

In Joan of Arc (1865), Millais non dipinge semplicemente un’eroina cristiana, ma un corpo attraversato dal mistero della fede: la sua Giovanna è intrisa di luce, sospesa tra l’ardore del martirio e la sensualità di una giovane donna che ascolta la voce interiore. Il bianco della veste, la lucentezza metallica dell’armatura, la verticalità dello sguardo costruiscono una tensione ascetica ed erotica allo stesso tempo. Un’estasi che nasce dal contatto diretto con il divino, ma anche dal riconoscimento della propria corporeità. In questa duplicità, Millais traduce la fede come esperienza incarnata, dove l’invisibile prende forma nella carne. La spiritualità diventa visione e desiderio, rivelando che il sacro non è opposto al sensuale, ma ne è il prolungamento più profondo.

Nava sembra riprendere questa stessa tensione, traslandola nel linguaggio del contemporaneo: la sua "fede nel fuoco" è una devozione verso l’immagine, il suono, la creazione come forma di trascendenza. Nei suoi lavori  tra video, performance e musica elettronica,  il corpo diventa medium di un rito laico e post-umano, dove la luce dei led e la pelle trattata come superficie sacra evocano un’estetica mistica ibridata dalla cultura digitale. L’artista si muove nello spazio visivo, in forma di un’icona consapevole della propria artificiosità. In questa consapevolezza, Nava racconta una forma di verità: una fede nella costruzione dell’identità, nella possibilità di trasformare l’ornamento in linguaggio spirituale.

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Il parallelo con le Amazzoni amplifica questa dimensione. Non più archetipi di un femminile bellico o mitologico, ma figure collettive di un nuovo sacro condiviso, sorelle nella vulnerabilità e nella forza. Nava, come loro, attraversa il confine tra corpo e simbolo, tra umano e divino, per restituire un’immagine della donna come creatrice e portatrice di linguaggio. La sua è una fede non dogmatica ma performativa, una fede che si manifesta nell’atto stesso di generare bellezza, ritmo, luce. Nava ascolta l’eco sintetica del mondo digitale e lo trasforma in canto: un’orazione che unisce spiritualità e tecnologia, carne e circuito. Nel suo universo estetico il fuoco non brucia, è la materia alchemica che trasforma, che restituisce alla fede il suo potenziale creativo. Come nei Preraffaelliti, anche qui il sacro non è più legato alla religione ma a un’esperienza estetica totale, una fede nell’immagine come atto di verità, dove la bellezza è ancora capace di generare visioni.

 Sienna Spiro / Medea – Il disastro lucido dell’amore

Medea è la donna che ama fino a tradire se stessa, la straniera che abbandona la propria terra per seguire Giasone e che, tradita, trasforma il dolore in una dichiarazione di lucidità. Nella tragedia di Euripide, Medea capisce che la perdita dell’amore è anche la perdita di un ruolo, di una lingua, di un’identità, e decide di riscrivere la propria storia a costo della distruzione. Sienna Spiro canta da quello stesso spazio di consapevolezza. Le sue composizioni, intrise di malinconia e nitore concettuale, restituiscono all’amore il suo potere corrosivo, lo sguardo analitico di chi non vuole guarire ma analizzare, sezionare. La sua è una Medea interiore, dove la voce risorge dal trauma. Nei suoi testi, il sentimento è uno studio ossessivo sul dolore, un processo alchemico in cui la vulnerabilità diventa una forma di potere cognitivo. Se le altre eroine decapitano, Sienna riconosce la spaccatura: la sua arma è emotiva, il disincanto, la precisione con cui trasforma la delusione in conoscenza. In lei, Medea non è più la mostruosa infanticida, ma la prima filosofa dell’amore tradito.

In questo pantheon contemporaneo, Salomè, Giuditta, Giovanna e Medea non sono più figure del passato ma presenze in metamorfosi, reincarnate nelle artiste che oggi riscrivono il femminile attraverso la musica, la performance e l’immagine. Le loro storie, un tempo narrate dai pittori e dai poeti, oggi si espandono nelle piattaforme digitali, nei videoclip, nei palchi: nuove pale d’altare dove il sacro e il profano coincidono. Il pop, spesso considerato linguaggio effimero, si rivela allora una forma di mitologia vivente: un luogo in cui il corpo torna a essere documento del proprio tempo, memoria di tutte le sue ferite e promessa di tutte le sue rinascite. Le nuove sante non chiedono assoluzione. Cantano dal sangue, e nel farlo riscrivono l’intera storia dello sguardo che le ha volute silenziose.