All's Fair è un disastro su tutta la linea Kim Kardashian, Naomi Watts e Glenn Close sono le protagoniste della nuova serie di Ryan Murphy

Si potrebbe fare della facile ironia su All’s Fair. Si potrebbe fare al punto che diventa difficile farla. Come quando una cosa è talmente brutta da fare il giro e iniziare a piacerci, mettendo in campo i concetti di kitsch o di camp. La serie originale di Ryan Murphy, però, questo giro non riesce proprio a farlo. Sprofonda invece subito in un imbuto di confusione, immobilizzando lo spettatore a causa della sua pochezza da rimanere più sbalordito che divertito, più senza parole che pronto ad utilizzarle, appunto, per scherzarci su. È infatti difficile prendere in giro lo show. Sembra qualcosa di talmente irrecuperabile che è inutile accanirsi. Ma non è avversione o rabbia ciò che provoca la visione delle puntate, uscite con le prime tre su Disney+ dal 4 novembre. Fa provare, invece, sconcerto e dispiacere. Dispiacere nel vedere alcune delle più importanti attrici della loro generazione coinvolte (o prigioniere?) dell’operato di Ryan Murphy.  

Kim Kardashian è la protagonista della nuova serie di Ryan Murphy

Partiamo da Kim Kardashian. È la più famosa tra i famosi a fare da leader ad una combriccola di avvocate divorziste che, dieci anni prima, hanno deciso di lasciare lo studio maschilista e anziano dove lavoravano per mettersi in proprio, diventare milionarie e ficcarlo in quel posto al patriarcato. Strategie lecite, se non fosse che lo scopo di queste protagoniste diventa esattamente tutto ciò che non dovrebbe essere il femminismo, ovvero dispetti, angherie, ripicche e scorrettezze che le professioniste giustificano in nome della causa e che, invece, alimentano una visione scorretta e non certo empowering dell’emancipazione e dell’auto-determinazione femminile. Un errore gravissimo, che si aggiunge al problema della confezione e dell'interpretazione e che fa di All’s Fair anche un contenuto ambiguo e destabilizzante. Un contenuto che rende macchiettistica una lotta reale e che dirotta la visione di self-made women, rendendola negativa.

Ciò che sciocca più di ogni altra cosa è la meccanicità quasi robotica e lobotomizzata che le protagoniste (e chi si muove loro attorno) adottano. Tutte avvolte in outfit stra-chic, si muovono tra gli arredamenti della serie che sembrano scelti dal Patrick Bateman di American Psycho. Le immagini restituiscono quella sensazione di irreale che, ad oggi, dovrebbe darci l’IA. L’aria stravagante, esagerata, frivola e a suo modo discutibile di Ryan Murphy fa parte della sua cifra stilistica. Stavolta, però, di stilistico non c’è nulla, di buon gusto neanche a pagarlo. C’è un imbarazzo diffuso per tutta All’s Fair che fa venire voglia di urlare allo schermo contro Glenn Close, Sarah Paulson, Niecy Nash, Naomi Watts e Teyana Taylor: “Perché? Perché vi siete fatte questo?”. 

Un insuccesso di pubblico e di critica

Con zero stelline date dal The Guardian, una media che dallo 0% su Rotten Tomatoes è attualmente salita al 6% (col pubblico che sembra apprezzare lo show più come riflesso per andare contro la critica che altro), All’s Fair vorrebbe essere oltraggioso, provocatorio, frizzante. E, invece, è l’occasione più sprecata che si sia vista recentemente nella serialità. Una regia e un montaggio che sembrano aver disimparato cos’è una messinscena e un dispendio di talenti che è difficile da sopportare. Ma, la cosa ancor peggiore, è che né nel bene né nel male se ne può fare almeno una risata. Le avvocate divorziste di Murphy ci hanno tolto anche questo