
Perché il burnout colpisce più duramente le donne?
C’è una verità che brucia sotto pelle: il burnout ha un genere, e troppo spesso è femminile
05 Maggio 2025
Ci sono stanchezze che il sonno porta via e poi ci sono quelle che ti si incollano addosso. È la stanchezza che non nasce da una notte in bianco, ma da mesi, a volte anni, passati a stringere i denti. A fare, fare, fare. A essere tutto per tutti. E poi un giorno ti svegli e non riesci più a esserlo nemmeno per te stessa. Questo non è solo stress. Non è solo un periodo no. È qualcosa di più profondo, più silenzioso, più pericoloso. È il burnout. E no, non colpisce tutti allo stesso modo. Per molte donne, è una condizione che arriva piano, travestita da normalità. Si infiltra tra le aspettative sociali, il lavoro emotivo non retribuito, la pressione di essere sempre presenti, sempre brave, sempre giuste. Si nasconde dietro la produttività, dietro i sorrisi automatici, dietro le giornate organizzate al minuto. È come una fiamma che brucia e consuma lenta ogni pezzo di noi, ma anche se ne vediamo le faville, non ne parliamo abbastanza. O, peggio, lo normalizziamo. La società in cui viviamo romanticizza la stanchezza, celebra la “superdonna”, premia chi sacrifica tutto in nome della produttività. E così, il malessere cresce nell’ombra, invisibile e accettato. Ma basta guardarsi attorno, nelle call di lavoro, nei messaggi vocali notturni, nei silenzi pieni di fatica tra amiche, per capire che non è solo stanchezza. È qualcosa di più profondo. Più sistemico. E sì, più femminile.
Cos'è il burnout?
Il burnout non è solo sentirsi stanche. Non è una settimana pesante, una giornata no o la voglia di dormire un po’ di più nel weekend. Il burnout è un lento e inesorabile esaurimento. Una forma di stanchezza che non si placa con il riposo, perché è radicata in uno squilibrio più profondo. È l'effetto di uno stress cronico non gestito, che logora corpo e mente. L’Organizzazione Mondiale della Sanità lo ha finalmente riconosciuto come una sindrome legata al lavoro, definendolo come “una condizione derivante da stress lavorativo cronico non gestito con successo”. Si manifesta attraverso tre sintomi chiave: esaurimento, cinismo o distanza mentale dal lavoro, e una ridotta efficienza professionale. Ma la verità è che il burnout va ben oltre le mura dell’ufficio. Si insinua nella vita personale, mina la motivazione, compromette le relazioni. Chi lo sperimenta parla di una stanchezza che non passa mai, di notti insonni, di una mente che gira a vuoto anche quando tutto tace. Può sfociare in ansia, depressione, insonnia cronica, disturbi gastrointestinali. Il corpo protesta, ma lo fa in silenzio, e spesso nessuno ascolta. Perché non ci è stato insegnato a fermarci. Ci è stato insegnato a resistere.
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Per le donne più responsabilità e meno riconoscimento
Le donne oggi lavorano fuori casa come mai prima. Ma non hanno mai smesso di lavorare dentro casa. E quel doppio carico, professionale e domestico, non si divide equamente con la persona con cui convivono, pesa quasi del tutto su di loro. Lo confermano le statistiche: secondo uno studio riportato dalla BBC, le donne sono molto più inclini al burnout rispetto agli uomini, specialmente in ambienti dove il loro ruolo non è riconosciuto o valorizzato. Il punto è che il carico di lavoro femminile è spesso invisibile. È organizzare compleanni mentre si prepara una presentazione per il capo. È ricordarsi della visita medica dei figli mentre si risponde a un’email urgente. È gestire i genitori che invecchiano, il cane che ha le coliche, il bucato da fare, il rimanere sempre in forma e attraenti per il partner. È pensare per tre, gestire per cinque, essere presenti ovunque e per chiunque. Il problema non è solo il “quanto” si fa, ma come lo si vive: sole. Senza supporto, senza rete, senza spazio per dire “basta”. E il riconoscimento? Spesso assente. Perché le donne vengono viste come naturalmente inclini a prendersi cura. Ma nessuno si chiede chi si prende cura di loro.
Bias di genere e ambiente lavorativo ostile
Nel mondo del lavoro, il burnout femminile non è solo una questione di carico. È una questione di cultura. Forbes lo afferma chiaramente: i bias di genere alimentano l’esaurimento. Le donne vengono spesso giudicate con un doppio standard: se sono troppo assertive vengono percepite come aggressive. Se sono collaborative, si dà per scontato che faranno il “lavoro emotivo” del team. Inoltre, molte donne non si sentono libere di esprimere i propri limiti o chiedere supporto per paura di apparire deboli. Questo le porta a nascondere il malessere, a sopportare in silenzio, a sorridere anche quando dentro sono a pezzi. Ecco perché l’inclusione non è un accessorio aziendale, ma una necessità. Come sottolineano molti esperti, creare spazi sicuri, empatici e realmente equi, è il primo passo per prevenire il burnout. Perché la parità non è solo una questione di numeri, ma di benessere psicologico.
@nott.clarity it comes in waves and not everyday is what we hope it to be
burnout - emma chamberlain quotes
Il mito tossico del multitasking
Cresciamo con l’idea che le donne siano bravissime nel multitasking. È quasi un complimento, no? Saper fare mille cose insieme, incastrare, organizzare, pensare avanti. Peccato che, a lungo andare, quello che ci è stato venduto come un superpotere da sfoggiare con fierezza si riveli una trappola. Il multitasking non è una virtù, è una gabbia. E dentro ci si consuma. Il multitasking nell’universo femminile è spesso coincidente con il multi-thinking, ovvero quella condizione mentale per cui una donna è sempre mentalmente impegnata, anche quando sembra ferma. Lo facciamo tutte. È quel pensiero perenne e spezzettato: la cena, il lavoro, i sensi di colpa, la lista della spesa, i messaggi non letti, il proprio aspetto e la lista potrebbe continuare all’infinito. Risultato? Il cervello non ha mai tregua, e il corpo lo segue. Questa pressione costante logora. Porta a dimenticanze, cali di attenzione, nervosismo. O peggio. Ma la società non lo vede. Perché “lei è forte, ce la fa sempre”. Ma nessuno si accorge che non ce la fa più. Uscire da questo schema non è semplice, perché significa anche disobbedire a un modello culturale.
Bellezza, perfezione e burnout estetico
Oltre al lavoro e alla gestione domestica, c’è un terzo fronte in cui le donne combattono silenziosamente: il corpo. Jessica DeFino, in un’inchiesta sul Beauty Burnout, parla di come le aspettative estetiche siano diventate una forma moderna di oppressione. Essere belle, curate, “presentabili”, ogni giorno, diventa un altro compito da barrare nella to-do list della vita. È un burnout silenzioso, ma pervasivo. Ore spese a cercare di apparire fresche, eternamente giovani e snelle, anche quando dentro ci si sente svuotate. È l’ansia da confronto, il filtro mentale costante, la pressione di dover essere performative anche nella propria immagine. Il corpo femminile diventa un progetto, mai finito, mai abbastanza. E ogni “imperfezione” è vissuta come un fallimento. Questo tipo di stanchezza non si vede, ma si sente. E si somma a tutto il resto.
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Identità che si sfilacciano: quando non ci riconosciamo più
C’è una parte del burnout di cui si parla ancora troppo poco, forse perché fa più paura di tutte: quella in cui smettiamo di riconoscerci. Quando la stanchezza non è più solo del corpo, ma diventa una perdita di direzione, di significato, di sé. È un logoramento sottile che intacca l’identità. All’inizio è solo fatica. Poi diventa nebbia mentale. Poi apatia. E infine, un pensiero sordo e persistente: ma io, chi sono diventata? Siamo cresciute con l’idea che essere forti significhi cavarsela da sole. Che lamentarsi sia da deboli. Che chi si ferma perde. E così, quando all’improvviso ogni cosa diventa difficile, anche quelle che prima facevamo a occhi chiusi, ci sentiamo inadeguate. Fallite. Sconfitte da una versione di noi stesse che non esiste più. Ma che continuiamo a inseguire. Il burnout può trasformarsi in una crisi esistenziale, fatta di dubbi, senso di colpa, confronto costante. Per esperienza personale posso dire che succede anche a chi vive quotidianamente una di quelle malattie chiamate “invisibili”. Il mondo intorno sembra andare avanti, e noi invece ci sentiamo in apnea. Attaccate ad un’ancora che ci trascina sempre più a fondo. Pensiamo che non sia legittimo sentirsi così, che c’è chi sta peggio, che noi non possiamo permettercelo. E così mascheriamo il malessere con sorrisi automatici, risposte brevi, “sto bene” detti con voce vuota. Continuiamo a funzionare, ma smettiamo di vivere davvero. Questo è forse l’aspetto più crudele del burnout: il suo modo silenzioso e subdolo di farci sentire sole, anche se non lo siamo.
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L’importanza di dire “no” e di riscrivere la narrativa della stanchezza
In un mondo che celebra chi dice sempre “sì”, imparare a dire “no” è un atto rivoluzionario. Non è egoismo, è rispetto. Non è fuga, è sopravvivenza. Eppure, per molte donne, dire di no scatena senso di colpa. Come se il nostro valore fosse misurato dal sacrificio. Ma dire no è anche dire sì a sé stesse: al proprio spazio, al proprio tempo, alla propria energia. Nessuno può versare da una tazza vuota, e forse è tempo di smettere di far finta che basti solo stringere i denti. Il burnout non è un fallimento personale. È una crepa sistemica, una ferita collettiva. Un sintomo di un mondo che ci vuole sempre presenti, produttive, impeccabili. Ma non più. È tempo di riscrivere la narrativa. Di guardarci allo specchio e chiederci con sincerità: come sto davvero? E se la risposta è “non bene”, allora va bene così. Fermarsi non è debolezza. È lucidità. È amore. Non è una battaglia da vincere, ma un ritorno lento e imperfetto a sé. A volte basta poco: chiudere il computer prima, non rispondere subito, respirare più a fondo. Altre volte è più difficile: chiedere aiuto, dire “non ce la faccio”, spezzare il ritmo. Ma non dobbiamo guarire perfettamente. Solo concederci il diritto di esistere anche nei giorni grigi. Perché non siamo macchine, e non dobbiamo dimostrare nulla. Esistere, con grazia, con verità, è già abbastanza. Ed è già rivoluzione.