
Qual è il vero problema dei performative male? Come dicono online, "my culture is not your costume"
Qualche giorno fa, ho pubblicato nei miei amici più stretti una storia che speravo facesse arrivare ai miei 81 follower più fidati la mia esasperazione: «Sarei stata un performative male perfetto». Non era solo una battuta, ma il riflesso di un discorso che in queste settimane è ovunque sui social. Il termine performative male è infatti diventato uno dei tormentoni dell’estate, soprattutto su TikTok, e indica un nuovo archetipo maschile che ha preso piede online grazie a meme, contest per le piazze e imitazioni. In realtà non c’è molto da spiegare, perché i tratti distintivi di questa figura coincidono con abitudini e codici che fanno parte della vita di migliaia di donne, queer e non, già da anni. Clairo, il matcha, le tote bag decorate, il libro infilato in borsa: dettagli che per lungo tempo erano letti come segnali, o meglio stereotipi, di una presunta bisessualità. Oggi, invece, sono diventati gli indicatori più riconoscibili di questo nuovo modello maschile. Non sarebbe la prima trasformazione che osserviamo. Prima c’erano gli skater boy, fan di Odd Future con i capelli lunghi e i cappellini Vans, poi i male manipulator con baffi e magliette vintage pronti a spiegarti il cinema indipendente o la musica rock anni Novanta, convinti che nessuno si avvicinerà mai alla grandezza dei Radiohead. In tutte queste versioni il gioco della manipolazione rimaneva confinato a un universo maschile, con performance rivolte a un pubblico simile e solo col tempo quei tratti sono stati percepiti come attraenti anche agli occhi del sesso opposto. Oggi, però, la dinamica è diversa. Il performative male nasce con l’obiettivo dichiarato di piacere alle donne, di mostrarsi docile e rassicurante, l’opposto della mascolinità tossica di cui si è parlato fino allo sfinimento. Ma allora, se davvero ci stiamo allontanando dall’ideale machista, dov’è il problema con questa nuova figura?
@thejeanluc “Who run the world” #dating #nyc #funny #comedy #fashiontiktok #matcha #fyp #soho original sound - Jean-Luc
Il performative male oggi
Come nota Vox, dietro la patina rassicurante del performative male si nasconde un sospetto sempre più condiviso: «forse questi uomini non sono ciò che sembrano» e i loro gusti e comportamenti rischiano di rivelarsi solo un travestimento, l’ennesima declinazione di archetipi già visti, dal maschio alfa al weeb di turno. La differenza è che, in questo caso, la performance è volutamente rivolta allo sguardo femminile, con un’estetica soft e pseudo-intellettuale che promette empatia e progressismo. Come sottolinea Katy Ho nel suo Substack, definire un uomo “performative” è quasi tautologico, perché «il genere è sempre stato una performance». Ma se per secoli sono state le donne ad adattarsi ai desideri maschili, oggi sembra che alcuni uomini abbiano iniziato a rivolgersi al female gaze, appropriandosi di interessi percepiti come femminili per costruire un’immagine più accettabile. La nuova declinazione, però, non nasce in un vuoto sociale, ma si sviluppa all’interno di un ecosistema preciso, quello dei social media. È soprattutto TikTok ad aver offerto a molti uomini una visibilità inedita, permettendo loro di sperimentare con codici di genere più fluidi e con forme di espressione considerate fino a poco tempo fa “troppo femminili”, come un semplice fit check. Come osserva la sociologa Jordan Foster, citata da Vox, l’app ha dato agli uomini «una visibilità pubblica storicamente nuova», trasformando la capacità di giocare con la propria presentazione di genere in un contenuto replicabile, condivisibile, potenzialmente virale. È anche per questo che il fenomeno si è imposto così velocemente: più che una rivoluzione spontanea, il performative male si alimenta in un loop continuo di trend e imitazioni che ne codificano i comportamenti e li rendono riconoscibili. Le magliette croppate, i vinili second-hand o i tampax nello zaino non sono soltanto segnali di una nuova sensibilità, ma diventano soprattutto marcatori estetici che prosperano proprio perché i social hanno bisogno di categorie chiare, figure immediatamente identificabili, personaggi che si prestano alla messa in scena.
Però il problema non è la performance, come ci ricorda Judith Butler, che negli anni 90 con il suo libro Gender Trouble ha introdotto il concetto di gender performativity. Secondo Butler il genere non è un fatto naturale né determinato alla nascita, ma il risultato di una serie di atti, gesti e comportamenti che si ripetono nel tempo fino a sembrare naturali. Camminare, vestirsi, parlare in un certo modo, tutto ciò che consideriamo espressione del “maschile” o del “femminile” è in realtà una costruzione performativa, un insieme di codici che interiorizziamo per rispondere alle aspettative sociali. In questa prospettiva non c’è nulla di sbagliato nel fatto che gli uomini performino un ruolo diverso da quello tradizionale, anzi, la performance può aprire spazi di libertà, permettere di scardinare gli stereotipi e mettere in discussione l’idea stessa di identità di genere come qualcosa di fisso. Il nodo semmai è quando questa performance smette di essere un’espressione autentica e si riduce a mera imitazione. Nel caso del performative male, i codici ostentati come l’indie pop femminile nelle cuffie con il cavo, i Labubu come accessorio dei jeans, i riferimenti femministi a portata di feed, non nascono da un’esperienza vissuta ma riproducono gesti e simboli che la comunità queer e femminile utilizza da anni come marcatori identitari. È qui che l’estetica rischia di trasformarsi in appropriazione, una copia patinata di linguaggi che avevano un significato politico e culturale preciso e che oggi vengono svuotati e riciclati come strumenti di seduzione effimera.
























































