
Se non hai un utero, smettila di decidere sull’aborto La situazione in Italia nel 2025
"RU486 a casa? Le donne gettano il feto e tirano lo sciacquone". Queste parole non le ha pronunciate un troll anonimo sui social network, ma il consigliere regionale emiliano di Fratelli d’Italia, Michele Bocchi. È successo pochi giorni fa, a Bologna. E non è stato un episodio isolato. Sempre in questi giorni, a Torino, l’assessore Marrone ha convocato una riunione interamente maschile sulla cosiddetta "stanza dell’ascolto" all’interno dell’ospedale Sant’Anna, uno dei presidi simbolici per il diritto all’aborto in Piemonte. Uno spazio ideologico, pensato per "convincere" le donne a non interrompere la gravidanza, finanziato con fondi pubblici e giudicato illegittimo dal TAR grazie al ricorso di CGIL e Se Non Ora Quando. Eppure, in entrambi i casi, il messaggio è lo stesso: uomini che parlano, decidono, agiscono su corpi che non sono i loro.
L'aborto non è una questione d’opinione
Se ci chiediamo ancora perché persone senza utero continuino a parlare di aborto, la risposta è tanto semplice quanto spietata: perché possono farlo. Perché siedono ai tavoli decisionali, ricoprono ruoli apicali, dettano le agende politiche. Perché nella nostra società il corpo delle donne, o più precisamente delle persone con utero, è ancora considerato un oggetto collettivo, un terreno di scontro ideologico, qualcosa su cui discutere pubblicamente, possibilmente senza coinvolgere chi lo vive ogni giorno. Sancito da una legge ormai obsoleta come la 194 del 1978, il diritto all’aborto in Italia continua a essere ostacolato da burocrazia, ideologia e obiezione di coscienza. Nel 2023 sono state registrate 65.493 interruzioni volontarie di gravidanza: un numero in aumento rispetto agli anni precedenti, anche se lontano dai picchi degli anni ’80. Ma dietro questo dato si nascondono realtà molto diverse da regione a regione.
Dove si può davvero abortire in Italia?
Secondo una recente mappa interattiva pubblicata dall’Istituto Superiore di Sanità, solo una parte delle strutture ospedaliere italiane praticano effettivamente l’aborto. E nemmeno questa mappa, pur importante, fornisce informazioni fondamentali, come il numero di medici obiettori. Di fatto, molte delle strutture indicate sono abilitate ma non funzionanti. La situazione è drammatica in regioni come il Molise o la Basilicata, dove il tasso di obiezione tra i ginecologi supera l’85%, rendendo impossibile accedere all’IVG in modo tempestivo. In Sicilia, su 68 strutture censite, solo 19 effettuano interruzioni volontarie di gravidanza. In Lombardia, la regione con più IVG annuali, sono meno della metà gli ospedali realmente accessibili.
L’aborto farmacologico cresce, ma non basta
La famosa pillola nominata dal consigliere Bocchi è la RU486, la pillola abortiva, che consente di interrompere la gravidanza senza intervento chirurgico. Oggi circa il 58% delle IVG in Italia avviene in forma farmacologica. Tuttavia, anche questo accesso è a macchia di leopardo: alcuni ospedali non hanno ambulatori attrezzati, altri rifiutano di somministrarla. E in molte realtà, la pillola è disponibile solo con ricovero ospedaliero, un ostacolo che disincentiva molte donne. Senza contare lo stigma, l’isolamento e le resistenze ideologiche che ancora circondano l’aborto "a casa".
Quando a parlare di aborto sono solo uomini
Il punto è che l’aborto non è solo un diritto. È un servizio sanitario essenziale, e dovrebbe essere garantito con serietà, rispetto, rapidità. Invece viene ancora messo in discussione. Ogni volta che un uomo prende parola pubblicamente per sentenziare sull’esperienza dell’aborto con toni accusatori, paternalisti o moralisti, si rinnova un meccanismo millenario: il controllo del corpo femminile. Non è un caso che a parlare siano spesso uomini. Né che a sedersi ai tavoli siano quasi sempre loro. Né che le strutture ideologiche, come la "stanza dell’ascolto" di Torino, vengano pensate, decise, difese da chi non ha mai dovuto fare i conti con una gravidanza indesiderata, con una scelta difficile, con la solitudine e la burocrazia che ancora circondano l’IVG. Servono politiche fondate su dati, non su ideologie. Serve un’educazione sessuale laica e capillare, che riduca il numero di gravidanze indesiderate. Serve che l’aborto non sia più vissuto come un percorso di colpa, ma come una possibilità tra le tante nella vita di una persona. E soprattutto: serve che chi non ha un utero faccia un passo indietro. E impari ad ascoltare.
Una postilla amara
In Italia, mentre si ostacola l’accesso all’aborto, nascono sportelli per "uomini maltrattati". Nel VI Municipio di Roma, l’unico in mano alla destra, è stato recentemente inaugurato uno sportello per uomini "vittime di violenza", promosso come contro-narrazione al lavoro dei centri antiviolenza. Un’iniziativa che rischia di delegittimare il tema della violenza di genere e di alimentare una falsa equivalenza tra la violenza maschile e quella femminile. Il mondo femminista non nega l’importanza di offrire supporto psicologico agli uomini, soprattutto a chi è cresciuto in contesti di violenza o tossicità. Ma è necessario smascherare l’ipocrisia e la strumentalizzazione politica dietro progetti che, più che offrire tutela, sembrano puntare a sminuire il lavoro decennale dei centri antiviolenza. Perché i numeri parlano chiaro: nel 2024, in Italia, sono già state uccise 51 donne, a cui si aggiungono 33 tentati femminicidi. L’ultimo dato ufficiale relativo all’uccisione di uomini da parte di donne risale al 2023: 6 casi in tutto l’anno. La violenza maschile nei confronti delle donne è sistemica. E non si combatte con sportelli simmetrici o con la propaganda ma con educazione affettiva, consapevolezza, percorsi di decostruzione. Se davvero si vuole aiutare gli uomini, si parta da lì.




















































