
Catcalling e dintorni: cronaca di una libertà negata
La routine della paura
09 Maggio 2025
Svegliarsi, alzarsi, scegliere un abito. Un gesto banale, quotidiano. Ma per molte donne, ogni mattina, si trasforma in una strategia di difesa. “Come posso vestirmi per non attirare attenzioni indesiderate?”, “Questo top sarà troppo provocante?”, “Meglio i pantaloni, magari evito i fischi.” Queste domande non dovrebbero far parte del risveglio di nessuno. E invece lo sono. Lo sono per milioni di persone socializzate come donne che, prima ancora di uscire di casa, devono già mettere in atto una forma di autodifesa preventiva. Il paradosso? Gli uomini queste domande non se le pongono. Escono, indossano ciò che li fa sentire a loro agio, prendono un caffè, vanno al lavoro. Nessuno li giudica, nessuno li insegue, nessuno fischia o commenta il loro corpo.
Il catcalling non è un complimento, è molestia
Nel nostro Paese il catcalling viene ancora troppo spesso sottovalutato. A volte addirittura difeso. “Dai, è solo un complimento.” No. Fischi, sguardi invadenti, frasi urlate da un’auto in corsa non sono apprezzamenti: sono atti di prevaricazione, “piccole” (ma continue) forme di violenza quotidiana. E il fatto che siano normalizzate, persino giustificate con il mito del “latin lover italiano”, è parte del problema. Uno studio ISTAT del 2018 ha rilevato che oltre il 60% delle donne italiane tra i 14 e i 65 anni ha subito molestie verbali o fisiche in luoghi pubblici. Secondo Plan International, il 58% delle ragazze in Italia cambia percorso o orario per paura di essere molestata. Il 40% si sente insicura anche solo camminando per strada.
Vestirsi per nascondersi
Nel tempo il mio guardaroba è cambiato. Le gonne sono sparite, i colori accesi anche. Ho iniziato a indossare abiti larghi, neutri, quasi a voler diventare invisibile. Ma è servito a qualcosa? No. Perché il problema non sono i vestiti. Non è il modo in cui camminiamo, parliamo, sorridiamo o ci muoviamo. Il problema è il modo in cui alcuni uomini sono stati educati a pensare che il corpo femminile sia un oggetto da commentare, da possedere, da invadere. E allora la domanda non dovrebbe più essere: “Come posso evitare il catcalling?”, ma piuttosto: “Perché esiste ancora chi si sente autorizzato a farlo?”.
Rispondere è un atto politico
A un certo punto ho smesso di abbassare la testa. Ho iniziato a rispondere. Con uno sguardo gelido, con un “che schifo”, con un “serve qualcosa?” oppure, quando serve, con un bel dito medio. Non sempre funziona, e non tutte se la sentono — e va benissimo così. Ma quando capita, quei leoni da marciapiede che fino a un secondo prima si sentivano padroni della scena, restano ammutoliti. Il potere cambia mano. E magari, la prossima volta, ci pensano due volte.
Dalla rabbia alla paura
Oggi riesco a parlarne con un tono più disteso, ma non è sempre stato così. Ci sono stati periodi in cui la sola idea di uscire da sola mi metteva ansia. Non volevo essere guardata. Evitavo persino i parchi pubblici, preferivo stare chiusa in casa. Non era solo disagio: era paura. Una forma di paranoia che ti toglie il respiro e la libertà. Secondo uno studio del Parlamento Europeo, una donna su due in Europa ha vissuto esperienze di molestia sessuale in spazi pubblici, e molte dichiarano di averne subito l’impatto psicologico per anni. Perché il catcalling non è una battuta: è un promemoria che, fuori, potresti non essere al sicuro.
Serve educazione, non silencing
Non siamo noi a dover cambiare, coprirci o proteggerci. È la cultura del possesso e della virilità tossica che deve essere decostruita. E per farlo serve educazione. Non basta dire “non fare il cretino per strada”, serve insegnare il consenso, il rispetto, l’empatia. Serve spiegare che il corpo altrui non è mai pubblico. Che ogni persona ha diritto a vivere lo spazio comune in pace. L’educazione sessuale e affettiva nelle scuole, ad esempio, non è un capriccio ideologico. È una forma di prevenzione, un investimento su un futuro in cui nessuno si senta legittimato a fischiare, urlare, invadere. Perché il rispetto si costruisce. E il silenzio, invece, lo distrugge. Per noi.