
Negli Stati Uniti si sta parlando ancora di atlete transgender
E lo sport è diventato un’altra volta il terreno di uno scontro più ampio
29 Aprile 2025
Da qualche settimana nel dibattito pubblico americano, sportivo e non, si è tornati a parlare di atlete transgender. A riaccendere l’attenzione sul tema sono stati i primi effetti della stretta normativa caldeggiata da Donald Trump in campagna elettorale, e messa in atto appena dopo il ritorno alla Casa Bianca, ovvero l’ordine esecutivo firmato a febbraio con cui si è imposta una rilettura del Title IX, la legge federale atta a garantire pari opportunità educative senza discriminazioni basate sul sesso.
In nome della “necessità di difendere lo sport femminile”, questa reinterpretazione del Title IX ne ha fatto uno strumento di esclusione, che impone una concezione binaria del genere ed estromette le ragazze trans dai programmi sportivi di licei ed università. Il decreto è stato accompagnato dalla minaccia per eventuali istituzioni non allineate di tagliare i fondi pubblici per l'istruzione. E ben presto in questo clima di tensione si sono generati i primi attriti.
Il caso del Maine
Su questo terreno ha preso forma il braccio di ferro tra l’amministrazione Trump e lo Stato del Maine, uno dei pochi rimasti con politiche inclusive, deciso a non cedere alle pressioni di Washington. Janet Mills e Sarah Forster, governatrice e procuratrice generale, hanno parlato di attacco ai diritti civili e rivendicato la propria competenza legislativa, promettendo battaglia legale. La risposta della Casa Bianca non si è fatta attendere: accusa di violazione del Title IX e di “mettere seriamente a rischio lo sport femminile”, e disputa che dal 16 aprile si è trasferita nelle aule dei tribunali. Il caso del Maine è l’ultimo atto di un conflitto culturale che attraversa gli Stati Uniti da anni, per cui lo sport si presta come arena di confronto. Uno spazio in cui trasformare ogni atleta e decisione nel simbolo di qualcosa, in una bandiera da sventolare o da abbattere, pur di fronte a un tema - teoricamente di etica sportiva - molto complesso.
Per capire come si è arrivati fin qui, è utile ripercorrere qualche vicenda dell’ultimo decennio. Partendo dal 2017, sulle piste di atletica del Connecticut, dove due velociste transgender - Andraya Yearwood e Terry Miller - si facevano notare nelle gare liceali, attirando le prime semplificazioni e facendo emergere un dissenso trasversale allo spettro politico. Nel 2019, poi, passava alla cronaca il primo titolo NCAA (Division II) di una studentessa trans, CeCé Telfer; l’ostacolista della Franklin Pierce University dopo la premiazione parlava di “una vittoria non solo mia, ma per tutti coloro che credono nell’inclusione e nell’equità”. E così, in un’atmosfera di crescente conflittualità, si giungeva nel 2022 al punto di non ritorno: il caso Lia Thomas. Nuotatrice e studentessa della University of Pennsylvania, con un trascorso agonistico in ambito maschile, Thomas tre anni fa vinceva il titolo universitario nazionale nei 500 yard stile libero. Il suo volto finiva su tutti i quotidiani nazionali, portando i toni del dibattito ad un’intensità insostenibile e polarizzando l’opinione pubblica.
Da una parte chi rivendicava il diritto di ogni individuo a competere secondo la propria identità di genere, come espressione di una più ampia tutela dei diritti civili e della comunità LGBTQ+; dall’altra chi coglieva la palla al balzo per paventare la “fine dello sport femminile” (#SaveWomensSports), cavalcare i casi più divisivi, alimentare la guerra contro ciò che Trump definisce “tirannia woke” e “ossessione della sinistra per il gender fluid”. CeCé Telfer dirà a proposito: “C’è una cosa che Trump dovrebbe spiegare: perché abbia deciso di cancellarci completamente dalla società, quando non abbiamo fatto nulla di male.”
Fronti aperti
Da allora il dibattito ha esondato definitivamente gli argini sportivi, come conferma la nascita di ICONS, organizzazione “per la difesa della categoria femminile”, o la visibilità acquisita da Riley Gaines, ex nuotatrice e portavoce della causa anti-inclusione; e sul fronte opposto, l’impegno dell’atleta e attivista Schuyler Bailar, della già citata Lia Thomas, e di tante associazioni che si battono per la tutela di una minoranza sempre più esposta, in primis a livello normativo.
Nell’aprile 2024, oltre 400 volti dello sport collegiale e professionistico americano - tra cui Megan Rapinoe, Sue Bird e Brianna Turner - hanno firmato una lettera indirizzata al Board of Governors NCAA. All’interno, una decisa esortazione a proteggere i diritti e gli individui transgender nelle università. “Il momento per la NCAA e la comunità atletica nazionale è adesso”, commentava Rapinoe, “per alzare la voce e affermare che lo sport dovrebbe essere per tutte, incluse le persone transgender. Alle mie colleghe atlete cisgender dico: è l’ora di dire forte e chiaro che i divieti presentati come protezione dello sport femminile non parlano per noi, e non fanno nulla per proteggerci. Negare la libertà di essere autentiche e di partecipare allo sport che si ama va contro i principi dell’olimpismo, che affermano lo sport come diritto umano.” Negli ultimi tre anni, però, venticinque stati a guida repubblicana hanno approvato leggi restrittive. E in ambiente democratico ogni tentativo dell’ala progressista di aprire un confronto più equilibrato è naufragato, sia durante il mandato di Joe Biden, sia nell’agenda di Kamala Harris. E così, mentre si moltiplicano i divieti e si alzano le barricate, ci si allontana sempre di più dal trovare risposte che guardino alle persone e al sapere scientifico, prima che agli schieramenti ideologici.
La crescente esposizione della politica di recente è emersa, oltre che nella controversia del Maine, anche nel caso Blaire Fleming. Alla studentessa transgender e giocatrice di pallavolo di San Jose State University è toccata la stessa sorte di Lia Thomas: incarnare, suo malgrado, uno scontro dai toni esasperati, esponendosi a tutti gli attributi transfobici che porta in dote e riducendosi a bersaglio politico e mediatico. E se il rumore di fondo - tra gossip, strumentalizzazioni e boicottaggi di altre università - ha inghiottito la stagione sportiva della squadra, la prima vittima di tutto ciò è stata la stessa Fleming, come traspare fin troppo chiaramente dalla sua testimonianza confidata al New York Times.
Opinione pubblica e polarizzazione
Tutti questi casi mettono nitidamente a fuoco i limiti del dibattito, e soprattutto del modo in cui viene maneggiato dalla politica e affrontato dai media. Nel 2024 abbiamo osservato una dinamica simile anche in Italia, con la pugile algerina Imane Khelif, pur trattandosi di un caso legato ai regolamenti sul testosterone e alle norme DSD (Disorders of Sexual Development), non al tema transgender. Durante i Giochi Olimpici la retorica che ha accompagnato i suoi incontri ha seguito la stessa deriva: polemiche mediatiche, ingerenza politica, semplificazioni e a volte spudorata disinformazione; il tutto nel disinteresse generale per la sensibilità dell’atleta, e lasciando poco spazio per elementi costruttivi. Cioè per la comprensione del caso specifiche, delle differenze tra ogni individuo e contesto, delle complessità normative e delle dimensioni del fenomeno. Negli Stati Uniti slogan come “Keeping Men Out of Women’s Sports” trovano terreno fertile nell’opinione pubblica.
Secondo un recente sondaggio Ipsos/NYT, il 79% degli americani si dichiara favorevole a limitare la partecipazione delle atlete transgender, e la percentuale resta alta anche tra i democratici (67%); cala drasticamente, invece, tra gli under-30, dove il sostegno alle politiche inclusive è in maggioranza. Dati che evidenziano una frattura generazionale, prima ancora che politica. Il problema di fondo è che questa guerra ideologica, combattuta sul campo sportivo, ha svuotato il dibattito delle sue vere criticità. Che non sono poche, anzi, ma è come se ci si fosse fermati al passo precedente: accoglierle, capirle, e quindi provare a scioglierle. Parlare solo di protezione e di divieti alimenta infatti una dicotomia sterile, fatta di sì e no, bianco e nero, dove invece servirebbe il coraggio e la flessibilità per muoversi tra le sfumature, e la volontà di rimettere l’etica sportiva e i criteri biologici - ancora oggetto di studio dentro la comunità scientifica - al centro del dibattito, senza semplificazioni e forzature. Perché una soluzione perfetta non esiste, e un punto di equilibrio accettabile, umano e “giusto” può essere trovato solo uscendo dalla logica dello scontro.