
Perché quest'anno abbiamo deciso di ignorare la Giornata Internazionale della Donna
Esiste il burnout del femminismo social e delle pubblicità a tema?
07 Marzo 2025
L'8 marzo è la Giornata Internazionale per i Diritti delle Donne. Impossibile mancarla. Da settimane riceviamo pubblicità a tema, consigli per prodotti proprio per-fet-ti! da regalare alle donne nella nostra vita e forse anche a noi stesse, perché va sempre bene viziarsi (o, almeno, questo è quello che dicono le réclame bombardanti che ci perseguitano da giorni). Non mancano le infografiche su Instagram con i numeri dei femminicidi, delle denunce, delle molestie, gli articoli storici che ripercorrono le origini di questa giornata, i consigli su cosa vedere, cosa leggere, cosa mangiare, cosa ascoltare e dove andare per farsi trovare pronti, per festeggiare quella che una festa non è. Per riflettere. Per ragionare. Per fare qualcosa. Per godercelo con le amiche. Per spendere i soldi. Abbiamo capito, lo facciamo ogni anno, va bene. E quindi?
La Giornata Internazionale della Donna serve ancora?
La verità, però, è che ci sentiamo proprio stanche. Siamo stanche di essere invitate all'acquisto sulla base di una ricorrenza che, in realtà, servirebbe ad altro, ma questo è il consumismo e il capitalismo, questi sono i tempi in cui viviamo. Siamo stanche di vedere i nostri diritti trasformati in fiori, serate a tema in pizzeria e nei locali. Siamo stanche, in realtà, anche delle infografiche, che anche se vengono fatte con le migliori intenzioni finiscono per alimentare il nostro loop di ansia e malessere, e se apriamo i commenti è ancora peggio, perché ci sembra che nessuno capisca, che ci sia una distanza insormontabile tra il dibattito social e quello che sentiamo al bar. A proposito di commenti, siamo stanche di leggere sedicenni anonimi inneggiare a Filippo Turetta su TikTok, siamo stanche del pinkwashing e di avere paura quando torniamo a casa da sole la sera (e a volte anche di giorno), siamo stanche di dover pensare al modo migliore per veicolare agli uomini che le donne sono esseri umani, perché è assurdo che non riescano a realizzarlo da soli. Siamo stanche di lavorare duramente per l'intersezionalità e la decostruzione in un mondo a pezzi, circondate da persone che non hanno nessun interesse a cercare di capire cosa diavolo significa, poi, decostruzione. Suonerà egoista, però è così. Siamo sicure di non essere le uniche. E allora, a cosa dovrebbe servire la Giornata Internazionale della Donna? Nel pratico, intendiamo.
Il burnout del femminismo social e la lotta per l'uguaglianza di genere in Occidente
Potremmo dire, mutuando un termine popolarissimo che si utilizza di solito nella sfera del lavoro, che siamo in burnout. Il burnout dell'8 marzo, il burnout dell'essere donne privilegiate e bianche che si sentono impotenti e disperate malgrado il loro privilegio, che osservano Gaza e la Palestina, gli Stati Uniti d'America, che si sentono crollare il mondo intorno. E allora? Lo diciamo tutti gli anni, ma purtroppo o per fortuna vale ancora, di nuovo, 365 giorni su 365 e 24 ore su 24. Bisogna continuare a lavorare all'uguaglianza di genere, ma nella vita vera. Su noi stesse e sugli altri, senza sosta e anche senza proclami. Anche se alcuni ci diranno che è già raggiunta, che in un match a pugni comunque perdiamo, che il femminismo non fa cose buone anzi rovina le famiglie e i giovani. Perché ce n'è ancora bisogno, perché forse prima di migliorare dovrà peggiorare.
La stanchezza come motivazione, ma lontane dai social
Dobbiamo ripensare l'attivismo, il significato che ha preso negli ultimi anni. Senza dimenticare del nostro privilegio, ma utilizzandolo attivamente e pro-attivamente, senza dimenticare mai del piacere della comunità e della cura, senza dimenticarci di abbracciare le nostre amiche, di concederci di staccare il cervello, di mettere i nostri soldi dove sta la nostra bocca, dove stanno le nostre idee. Di allontanarci da Instagram. È un equilibrio sottilissimo, personale. Un discorso da problemi del primo mondo. Ma non è evitabile, perché si sente. Si sente la perdita della speranza, si sente l'apatia. E non ce lo possiamo permettere, per noi e per le altre. Però magari ricominciamo a pensarci a partire dal 9 marzo, quest'anno.