Che cosa vuol dire essere non-binary? Spunti, riflessioni e un grande invito all'ascolto

Il termine non binario, o non-binary, in inglese, è un termine ombrello che racchiude una molteplicità di identità di genere che non si riconoscono pienamente né nel genere maschile né in quello femminile. C’è chi si percepisce in parte uomo e in parte donna, chi si sente fluido tra più generi, chi non si riconosce in alcun genere, chi rifiuta completamente il concetto stesso di genere. Non c’è un solo modo di essere non binariə. E proprio per questo ogni tentativo di racchiudere questa identità in una definizione univoca fallisce. È un'esperienza personale, intima e plurale. Spesso la società tende a confondere l’identità di genere con il sesso biologico, con l’espressione di genere o con l’orientamento sessuale. Sono concetti distinti: essere non binariə non dice nulla su chi si ama né su come ci si veste o ci si mostra. È, piuttosto, una questione di percezione profonda di sé.

Una giornata per le persone non-binary non è abbastanza

Il 14 luglio è stata la Giornata Internazionale della Visibilità delle Persone Non Binarie. In un sistema sociale, giuridico e culturale che continua a funzionare per dicotomie nette, (uomo/donna, maschio/femmina), riconoscere l’esistenza e la dignità delle persone non binarie è ancora oggi un gesto radicale. Ma più che radicale, sarebbe giusto dire necessario.

Le persone non binary nella storia 

C’è chi pensa che il non binarismo sia una moda recente o una tendenza della gen Z. Ma le identità non binarie sono sempre esistite nella storia dell’umanità. Sono semmai state rimosse, cancellate, patologizzate. Come ricorda l’attivist* Lou Ms.Femme nel suo libro Rivoluzione non binaria (Le Plurali), le persone non binarie non sono una moda recente o una tendenza occidentale, ma un'espressione dell'identità umana presente in ogni epoca e in ogni latitudine. In molte culture del mondo, infatti, esistono ed esistevano ben prima della colonizzazione, figure che non si collocano rigidamente nei due generi dominanti. Pensiamo ad esempio alle hijra in India, ai fa'afafine delle isole Samoa, alle vergini giurate nei Balcani o alle persone two-spirits tra numerose tribù native del Nord America. Queste identità, profondamente radicate nei rispettivi contesti culturali e spirituali, mostrano come il binarismo di genere non sia né universale né naturale, ma piuttosto una costruzione sociale imposta in gran parte dal pensiero coloniale e patriarcale. L’Occidente moderno, invece, ha imposto con violenza un modello binario di genere che ha trasformato la pluralità delle esistenze in devianza, la complessità in anomalia. Oggi, chi si definisce non binary non sta inventando qualcosa di nuovo. Sta, semmai, reclamando un diritto antico: quello di essere riconosciutə per ciò che è, senza dover scegliere tra due sole opzioni.

Parlare di genere come spettro

Uno dei grandi fraintendimenti legati al non binarismo è pensare che il genere sia qualcosa di fisso, biologico, legato agli organi sessuali. Ma il corpo è solo un corpo. Tutto ciò che ci costruiamo intorno - mascolinità, femminilità, ruoli, aspettative - è cultura. È tradizione. È performance. E può, deve, essere messo in discussione. Immaginare il genere come uno spettro e non come un sistema fatto di due poli opposti significa dare a ogni persona la possibilità di collocarsi dove si sente meglio. E magari, di cambiare nel tempo. Di non dover scegliere, di non dover spiegare, di non dover subire un sistema che ti impone di definirti in modo definitivo e coerente, solo per risultare leggibile agli occhi altrui.

Una necessità sociale

La visibilità delle persone non binarie non è un vezzo identitario. È una questione politica, sociale e profondamente umana. Nominare significa rendere reale. E ciò che non viene nominato, spesso non viene neppure riconosciuto come esistente, né considerato degno di tutela. È da questo silenzio forzato che nasce l’urgenza di rompere l’invisibilità e di affermare, con forza, che le soggettività non binarie esistono, resistono, e meritano piena cittadinanza.

Cosa vuol dire essere non-binary in Italia nel 2025?

In Italia, tuttavia, chi vive al di fuori del binarismo di genere continua a essere cancellato dalle norme, dai dati, dal linguaggio pubblico. Nei documenti ufficiali esiste ancora solo la dicotomia “M” e “F”; la legge 164/1982, nata per regolamentare il percorso giuridico delle persone trans, esclude completamente chi non si riconosce in un’identità univocamente maschile o femminile. Il risultato è che qualsiasi possibilità di riconoscimento formale per le persone non binarie è affidata alla buona volontà di singoli giudici o funzionari, in assenza di una cornice legislativa organica e inclusiva. Questa assenza di riconoscimento istituzionale si traduce in una serie di micro e macro compromessi che segnano la quotidianità: iscriversi a scuola, prenotare una visita medica, partecipare a un concorso pubblico, persino rispondere a un modulo online può significare dover scegliere un’identità che non rispecchia chi si è. Un peso costante, che si somma alla difficoltà di essere chiamatə con il proprio nome e i propri pronomi, all’assenza di rappresentazione nei media mainstream, e troppo spesso anche alla marginalizzazione all’interno delle stesse lotte LGBTQIA+, dove le voci non binarie continuano a faticare per trovare spazio, alleanza e ascolto.

Eppure, la visibilità non è solo questione di rappresentazione: è anche una forma concreta di cura, di accesso alla salute, di legittimazione del proprio vissuto. È un presidio contro la solitudine. Studi internazionali, tra cui ricerche pubblicate su riviste di medicina e psicologia, mostrano che le persone non binarie hanno una maggiore incidenza di disturbi d’ansia, depressione, stress post-traumatico e isolamento sociale. Ma è fondamentale chiarire: non è l’identità in sé a generare malessere, bensì l’ambiente ostile, discriminante o semplicemente muto in cui queste persone si trovano a vivere. Quando mancano riconoscimento, supporto e linguaggio, a venire meno è la possibilità stessa di sentirsi legittimə, accolti, al sicuro. Lottare per la visibilità, quindi, non è un gesto individuale. È una battaglia collettiva per costruire una società in cui ogni corpo, ogni esperienza e ogni identità abbiano diritto di esistere, essere ascoltate, essere protette. Una società in cui la libertà di espressione non si fermi a un’idea astratta di tolleranza, ma diventi prassi concreta di giustizia.

L’alleanza tramite l’ascolto 

Forse il primo passo concreto che ciascunə di noi può fare è mettersi in ascolto in un patto di alleanza. Chiedere i pronomi. Lasciare spazio alle storie. Rinunciare all’istinto di classificare tutto subito. Accettare che l’identità dell’altrə possa sfuggirci, e proprio per questo meriti rispetto.