
Femminicidi in Italia: l’illusione della protezione e la realtà del fallimento Un fenomeno che non accenna a fermarsi
Nel 2024, il numero dei femminicidi in Italia ha continuato a crescere in modo allarmante: al 1° settembre si contavano 65 donne uccise, su un totale di 192 omicidi volontari. Questo significa che una vittima su tre era una donna assassinata quasi sempre da una persona a lei vicina. Nella stragrande maggioranza dei casi, il carnefice è un partner, un ex o un familiare. Non parliamo di episodi isolati, ma di un sistema radicato di violenza domestica, controllo e possesso, alimentato da disuguaglianze strutturali e culturali di genere.
I dati internazionali e nazionali
Secondo le Nazioni Unite e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, già nel 2017 il 58% delle donne uccise nel mondo era stato vittima di un partner o familiare. L’Italia rientra perfettamente in questa tendenza: più dell’80% dei femminicidi avviene infatti all’interno di relazioni intime o contesti familiari, come confermato dal Ministero dell’Interno. L’ISTAT aggiunge che, sebbene gli omicidi totali siano diminuiti negli ultimi 20 anni, i femminicidi restano costanti, con donne uccise nel 90% dei casi quando l’aggressore è il partner.
Quando la casa diventa una trappola
Per molte donne, l’ambiente domestico non è il rifugio che dovrebbe essere, ma il luogo più pericoloso. I femminicidi avvengono spesso dopo lunghi periodi di violenza psicologica e violenza fisica, scatenati in molti casi dalla volontà della donna di separarsi o rendersi indipendente. Ogni gesto di autonomia può trasformarsi in un rischio mortale, ogni tentativo di denuncia in una corsa contro il tempo.
Media e femminicidi: una narrazione malata
La rappresentazione mediatica della violenza di genere in Italia resta profondamente viziata. Gli omicidi vengono spesso raccontati come "raptus", "tragedie del troppo amore", oppure gli assassini vengono descritti come "bravi ragazzi", "gentili", vittime a loro volta della gelosia o della solitudine. Questo linguaggio mediatico non solo distorce la realtà, ma minimizza la responsabilità del colpevole e finisce per romanticizzare la violenza.
Come riportato nel mio libro Gli Svedesi lo fanno meglio edito da Rizzoli, tre sono i principali modelli narrativi con cui i media affrontano il femminicidio:
- Il caso ad alta notiziabilità, come quello di Giulia Cecchettin, trattato come un thriller da risolvere, con dettagli morbosi e pathos fuori luogo.
- La cronaca routinaria, dove la violenza viene banalizzata e inserita in un flusso di notizie che ne svuota il senso, usando stereotipi come "amore malato" o "scatti di rabbia".
- La tragedia della solitudine, spesso riferita a vittime anziane o fragili, in cui si finisce per giustificare il crimine come frutto della disperazione, senza neanche nominare la vittima.
Leggi nuove, problemi vecchi
Nel 2024, l’Italia ha varato nuove misure legislative per contrastare la violenza di genere. Tra queste:
- Braccialetti elettronici obbligatori per monitorare chi è accusato di violenze.
- Inasprimento delle pene per i recidivi, con l’introduzione della flagrante differita, che permette arresti anche a posteriori tramite prove video.
- Aggiornamento del Codice Rosso, per rendere più rapide le risposte giudiziarie alle denunce.
Tuttavia, l’impatto di queste riforme resta limitato. I dispositivi elettronici, ad esempio, spesso non funzionano a causa di problemi tecnici o scarsa copertura di rete. E quando funzionano, non sempre vengono attivati per tempo o in modo efficace. Il caso di Samia Bent Rejab, uccisa durante le due ore settimanali in cui al marito violento era concesso uscire nonostante gli arresti domiciliari, ne è la dimostrazione più tragica.
La lunga lista di fallimenti istituzionali
Samia non è la sola. Celeste Palmieri, Roua Nabi, Concetta Marruocco, Camelia Ion: donne che avevano già denunciato i propri aggressori e che sono state comunque uccise. In troppi casi, la protezione arriva tardi o non arriva affatto. I cosiddetti reati spia — stalking, minacce, maltrattamenti — non vengono presi sul serio finché non sfociano in tragedia. È qui che lo Stato fallisce: nel non saper prevenire, nel non saper ascoltare.
E le vittime? Sempre inascoltate
L’inadeguatezza delle risposte istituzionali alimenta un clima di sfiducia e rassegnazione. Come si può continuare a chiedere alle donne di denunciare, se poi non vengono protette? Se il sistema non solo è inefficiente, ma contribuisce a creare un pericolo ulteriore? E chi si occupa della rieducazione dei colpevoli, della prevenzione culturale, della decostruzione della mascolinità tossica?
Il peso della discriminazione intersezionale
Infine, non possiamo ignorare il ruolo della discriminazione etnica nella narrazione e nella gestione dei femminicidi. Quando la vittima è straniera o l’aggressore proviene da una minoranza, la copertura mediatica è ancora più approssimativa, superficiale, e a volte assente. Ogni vita dovrebbe valere allo stesso modo. Ma nei titoli dei giornali, questo principio si perde.
Siamo arrabbiatə, ed è giusto così
Il nostro sistema di protezione ha fallito troppe volte. Le misure ci sono, ma non bastano. Serve una rivoluzione culturale, una formazione diffusa, un impegno collettivo per riconoscere i segnali della violenza e agire prima che sia troppo tardi. Serve che ogni morte venga trattata con il rispetto e la serietà che merita. Perché non si può continuare a morire così. E sì, siamo stanchə. E sì, siamo arrabbiatə. E dobbiamo continuare a esserlo.
























































