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Se anche il cibo diventa moda e status symbol

Da sostentamento a flex sui social, abbiamo perso il contatto con cosa significa mangiare

Se anche il cibo diventa moda e status symbol Da sostentamento a flex sui social, abbiamo perso il contatto con cosa significa mangiare

Il cibo è sopravvivenza, parte ineliminabile della nostra vita, sostentamento obbligato, convivialità, comunità, appartenenza, scoperta, sperimentazione, storia familiare e geografica. Allo stesso tempo è anche trend, intrattenimento, contenuti social, status symbol, mondanità. Un’intera industria, quella del food prima che dell’alimentare, si basa su questo concetto. Come tale, è fatta di tendenze, di personaggi, di volti e di fidelizzazione del cliente. Dagli chef televisivi in poi, il nutrirsi è un genere. Ci sono i programmi televisivi, i reality e i talent show a tema, i website e i blog, i canali YouTube, i food creator e i format. Mai come adesso, però, il cibo oltre a essere di moda è esso stesso moda, su più livelli.

Il cibo di moda, il cibo che diventa moda

Qualche esempio? Il team-up tra Palace (e Vain) e McDonald’s, che ha dato vita a una gamma di t-shirt e felpe esclusive e la collaborazione (in edizione limitata, si intende) di Burberry con Norman’s Cafe, oppure ancora il gelato di Saint Laurent, la capsule di abbigliamento di Nando's e l'olio d'oliva di A.P.C. Per non parlare delle commistioni tra cibo e cultura pop, come i desideratissimi Oreo x Chromatica di Lady Gaga o con le Blackpink, Burger King per Barbie, Heinz per Absolut Vodka, Coca-Cola e NewJeans, AMBUSH e Reese's Puffs. Anche il cibo è un item da collezione, meme e oggetto da possedere: tutto in uno. Che poi si mangi o meno diventa secondario

Il food come status symbol: fotografabilità e coolness

Non sono solo le campagne e le collaborazioni con brand più o meno di lusso a rendere il cibo parte del nostro curatissimo stile di vita quotidiano, o quello che vorremmo apparisse come tale sui social. Agli eventi esclusivi, il cibo deve esserci, e deve essere cool. Deve arrivare dal bistrot, caffè o ristorantino più hyped del momento, e prima di essere buono (che poi tanto nessuno lo mangia davvero) deve essere fotografabile. La fotografabilità costante di quello che consumiamo, dalla latte art in poi - come segnala Bo Burnham in White woman Instagram - lo rende lontano, distante, una cosa che non abbiamo fatto noi, un oggetto al pari di un quadro. Non è un caso che più il cibo diventa glamour meno ce lo cuciniamo, da soli, a casa nostra. Ancora, mangiare fuori (e il luogo che si sceglie per farlo) è un mezzo di gentrificazione e di separazione sociale, soprattutto nelle grandi città, piagate dalla fioritura di nuovi-posti-che-assolutamente-non-puoi-perderti in ogni angolo. E se un quartiere non è ancora abbastanza sul pezzo allora tanto meglio, lo diventerà anche grazie a questi punti caldi, in cui per mangiare un cornetto con la crema o un cinnamon roll (scelta hip, meno da mamma) devi fare la fila e pagarlo 5 euro e in cui, soprattutto, troverai solo foodie che si comportano, si vestono, mangiano e vivono proprio come te. A volte, questi ristoranti hanno vero e proprio merch. Il passo successivo? Condividere questa incredibile scoperta sui social, un TikTok o un IG reel sui luoghi segreti da scoprire alla volta. E la fila aumenta insieme alla desiderabilità. 

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Mangiare sui social, con gli occhi (e basta)

Il discorso nutrizione e alimentazione sui social è un mostro a tre teste. TikTok lancia trend anche in questo campo, obbligando i food creator a tentare la viralità riproducendo la feta pasta o la salmon bowl, che ha fatto la fortuna della veterana di YouTube Emily Mariko e che ha causato uno shortage di kewpie mayo un po’ ovunque. I format sono svariati, c’è chi mostra cosa mangia e cosa beve, in un tripudio di ordinazioni tramite app e senza sporcare neanche un piatto, e chi invece si prepara tutto con cura, mostrando ogni passaggio e preparando piatti elaboratissimi, perfetti, costosi e con ingredienti introvabili. Cosa hanno in comune questi due estremi dello spettro? Non sono assolutamente sostenibili sul lungo periodo, da persone normali con vite normali e stipendi normali. Ancora, mettono una distanza enorme tra noi e l’atto del mangiare, inteso semplicemente come nutrirsi. Da una parte, come rilevato da Mike Pollan nel suo saggio Cotto, ordinando fuori deleghiamo completamente la responsabilità della nostra sopravvivenza a qualcun altro, lavandocene le mani. All’opposto, i piatti estremamente curati e coreografati esistono solo in un mondo ideale, in cui tutte le persone hanno tempo, voglia e risorse per prepararli. Cucinare è vivere, per queste persone, ma perché li fa guadagnare in quanto influencer. Quasi mai vediamo un pollo crudo, le sue viscere, la terra sulle patate, il riso incollato, la pasta scotta. La realtà degli alimenti si perde completamente, proiettandoli su uno schermo che non ammette realismi. Ma cosa c’è di più terreno e corporeo del mangiare? Forse solo il corpo stesso.


I rischi dell’astrazione: ristabilire un contatto

Non c’è volontà di condannare chiunque posti contenuti a tema cibo, anzi. Va rilevato, però, che i rischi di questo comportamento astrattivo sono svariati, dai disturbi del comportamento alimentare alla smania di mangiare sempre qualcosa che sia bello, figo, al passo, a prescindere da valori nutritivi e dalla realtà passando per l’imitazione di stili alimentari di persone che hanno bisogni completamente diversi dai nostri. Senza neanche toccare il tema, enorme, dei dietisti online e dei loro consigli a distanza, cerchiamo di tirare le fila e di riflettere su comportamenti che vediamo tutti i giorni e che proprio per questo sfuggono dai radar, si normalizzano. Se gli stili di vita folli, veloci e moderni ci levano il tempo e la voglia di prenderci cura di noi, forse prepararci un piatto di riso con le verdure (brutto ma molto buono) potrebbe essere un modo di riprenderci il nostro tempo, una coccola da preservare, almeno quando si può. Senza troppi fronzoli e performance.