Mappa vintage

Vedi tutti

Non abbiamo ancora capito niente del lavoro di cura

E le polemiche sull'appello allo sciopero di Non Una Di Meno lo dimostrano

Non abbiamo ancora capito niente del lavoro di cura E le polemiche sull'appello allo sciopero di Non Una Di Meno lo dimostrano

Oggi 8 marzo è la Giornata Internazionale per i Diritti delle Donne. Per onorare le origini politiche e di rivendicazione di questa data, Non Una Di Meno (movimento femminista e transfemminista nato nel 2016) ha organizzato uno sciopero nazionale, annunciato e comunicato tramite un appello e un articolo sul sito, di cui sono stati condivisi degli estratti anche sulla pagina Instagram ufficiale del collettivo. Alcune delle istanze non sono state capite, anzi sono state discusse e dibattute sui social con toni polemici, anche da parte di altre donne. Alla base, ci sembra, una mancanza di comprensione basilare del lavoro di cura, di cosa vuol dire e di quanto spazio mentale e fisico occupa per le donne, che è dato per scontato se ne prendano il carico completamente o quasi. Cerchiamo di fare chiarezza.

Le parole di Non Una di Meno per lo sciopero dell'8 marzo

"Scioperare l’8 marzo significa trasformare la potenza del 25 novembre in blocco della produzione e della riproduzione, attraversando i luoghi dove la violenza patriarcale si esercita ogni giorno: nelle case e sui posti di lavoro, nelle scuole e nelle università, nei supermercati e nei luoghi di consumo, nelle strade e nelle piazze, in ogni ambito della società. Perché se ci fermiamo noi si ferma il mondo!" così inizia l'appello allo sciopero di NUDM. Il punto qui è semplice: lo sciopero non si ferma al lavoro, ma si propaga anche agli altri ambiti della vita in cui alla donna è richiesto ulteriore lavoro, non riconosciuto né tantomeno retribuito, semplicemente dato per scontato. Come per Ebenezer Scrooge col Natale, questa iniziativa appare minacciosa alla società sotto forma di fantasma della società futura e si chiede e ci chiede: cosa succederebbe se le donne si fermassero? Se lasciassero le redini di tutto quello che fanno ogni giorno, se non andassero a prendere i bambini a scuola in pausa pranzo, se non rispondessero al telefono quando i mariti, compagni, padri e fratelli chiamano dal supermercato, confusi, se non muovessero un dito quando gli stessi tornano a casa e si aspettano la cena in tavola e il bagno splendente, quando non aiutano con i bambini.

Lo sciopero della cura

Ovviamente, lo sciopero è un'istanza delicatissima, e non tutte le donne possono permettersi di farlo. C'è chi non ha un contratto, chi rischia il licenziamento, chi non può lavorare perché occupata con i bambini, relegata a una posizione di dipendenza economica da cui è difficile uscire. Proprio per questo in un post in particolare si specificano forme di protesta alternative rispetto a quelle tradizionali, con tanto di esempi pratici. Tra questi astenersi dai consumi può dare un segnale forte sul piano economico. Ancora, si parla di sciopero riproduttivo: "Chi ha sulle spalle il maggior carico di lavoro domestico, si ferma e si astiene rendendo visibile il proprio contributo e le proprie rivendicazioni, verso una più giusta considerazione e collaborazione" e di genere: "Rifiutati di fare tutto ciò che ritieni ti sia imposto sulla base del tuo genere, a casa e sul lavoro". Tutte queste istanze (e molte altre, in realtà) potrebbero essere raggruppate sotto la definizione-ombrello di lavoro di cura, e lo sciopero che ne consegue potrebbe essere chiamato sciopero della cura. Chiaro, no? Evidentemente no.

Le polemiche mancano il punto: siamo malati di produttività

Quale sarebbe il problema? Che queste istanze, secondo alcune persone, annacquano il femminismo. Che le donne vogliono solo essere pigre, che il lavoro di cura è innato e piacevole (sempre!) e che allora tanto vale adagiarsi, usare l'8 marzo come scusa per non fare mai più nulla nella vita, per non amare i propri mariti e compagni, i propri figli. Si è addirittura creata - spontaneamente, nei commenti - una "gara" tra donne che lavorano sia dentro che fuori casa, e che sono quindi più vessate, e donne che lavorano "solo" in casa. In realtà, proprio in questa gara a chi lavora di più si trova il punto di questa definizione ampia e omnicomprensiva di protesta, su più livelli. A un primo livello, queste polemiche sottolineano quanto siamo malate di produttività, quanto non riusciamo neanche a immaginare una società che non sia capitalista e basata sullo sfruttamento, quanto un certo femminismo individualista voglia sostituire gli uomini al potere, non smantellare un sistema. In secondo luogo, sottolinea ancora di più il modo in cui il lavoro di cura e "di genere" è sminuito e dato per scontato, quando in realtà si tratta di una componente importantissima della vita familiare e collettiva, che ne inficia lo sviluppo emotivo ed educativo e che da i suoi frutti a medio lungo termine. Finché non riusciamo a informare il nostro femminismo di istanze intersezionali (e vi si inseriscono anche le donne che non lavorano) e collettive, allora saremo schiave dei soldi e anche degli stereotipi. Peggio di così.