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Calvin Klein e Dafne Boggeri presentano "Coming out of my Comfort Zone"

L'opera realizzata dall'artista a Milano è parte del progetto #proudinmycalvins

Calvin Klein e Dafne Boggeri presentano Coming out of my Comfort Zone L'opera realizzata dall'artista a Milano è parte del progetto #proudinmycalvins
Courtesy of Calvin Klein
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Courtesy of Calvin Klein
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Calvin Klein conferma ancora una volta il suo sostegno verso la comunità LGBTQIA+, invitando quattro artisti queer a raccontare, attraverso la creazione di murales, i momenti più significativi del loro percorso. Gli artisti, chiamati dal brand ad esprimere la propria creatività attraverso questa forma di street art, hanno presentato le proprie opere in collaborazione con l'Institute of Digital Fashion (IoDF) in diverse città in Europa, trasformando le strade in musei a cielo aperto. 

Courtesy of Calvin Klein
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I quattro protagonisti sono Sarah Naqvi, che ha realizzato e presentato Etymologies of Erasure ad Amsterdam lo scorso luglio; Danielle Brathwaite-Shirley, autrice di There is Power not Passing a Berlino, opera che racconta l'esperienza black trans; Tanaka Fuego, che a Londra ha usato il murales Ancestor Encore come piattaforma per mostrare l'orgoglio per le sue origini. Infine, mercoledì 8 settembre a Milano è stato il turno di Dafne Boggeri, che ha presentato l'opera Coming out of my Comfort Zone. Artista multidisciplinare, curatrice di una casa editrice indipendente e founder del collettivo femminile e non binario @tomboysdontcry, Dafne ha scelto di rappresentare con il suo murale un omaggio ai movimenti LGBTQAIXYZ degli anni '70, attraverso la scelta del colore e l'uso di maschere della mitologia greca.

"Sono particolarmente interessatƏ all’idea di modificare, occultare o trasformare i propri connotati, e queste maschere, così cariche di significato, fanno parte di una ricerca che sto portando avanti da anni sulla loro rappresentazione, uso e diffusione in varie culture ma anche utilizzate in modo universale per esprimere gioia e dolore, nel loro aspetto più concreto e quotidiano e in una sublimazione più ampia." - afferma Dafne.

In occasione della presentazione del progetto, Dafne Boggeri ha raccontato ad nss G-Club, attraverso un'intervista, tutte le curiosità sulla sua opera e sulla collaborazione con Calvin Klein. 

 

Ciao Dafne, raccontaci qualcosa di te e del tuo progetto @tomboysdontcry. Quando nasce il collettivo e quali sono le attività principali di cui vi occupate? 

TOMBOYS DON’T CRY nasce nel 2011 insieme a S/HE (Mark Rebel) come progetto legato al perimetro del club, sia esso reale o metaforico, per accogliere bestie preziose, lesbians on ecstasy, wonder queers, absolute beginners, ragazze interrotte e tutte le creature sfumate che si riconoscono negli interstizi di questi immaginari. La nostra pratica è post-identitaria, maturata all’interno della Pornflakes Crew, primo collettivo queer italiano fondato nel ‘00 a Milano. Quell’esperienza incredibile, di resistenza ludica e frivolezza tattica, messa in moto per creare alleanze tra corpi e uscire genuinamente fuori dagli schemi attraverso una ricerca non commerciale, ci ha insegnato molto e ci ha spintƐ poi ad evolverci in questa nuova avventura rivolta soprattutto a ragazze di qualsiasi genere e creature non binarie. Negli anni abbiamo incontrato persone fondamentali con le quali condividere progetti, la filmmaker Alice Daneluzzo, l’artista/performer Petra Rocca e la fotografa Ilenia Arosio. Abbiamo iniziato ad autoprodurre una linea di hacking apparel, che consideriamo come un modo sotteso per le persone di riconoscersi e magari iniziare nuove conversazioni; abbiamo continuato a suonare come Dj, a promuovere serate occupandoci di ogni aspetto dell’organizzazione, in un ambiente spesso molto poco inclusivo; curiamo la rassegna di immagini in movimento a tema queer transfemminista BODY LANGUAGE e partecipiamo a progetti espositivi, più o meno istituzionali.

Il progetto Coming out of my Comfort Zone combina l’arte del murales alla simbologia e mitologia greca, oltre al richiamo ai movimenti LGBTQAIXYZ degli anni ’70. Come comunicano fra loro questi elementi nell’opera?

L’opera è composta da due elementi: la parte di testo, che è un mantra che spesso ripeto a me stessa, e un pattern di maschere stilizzate, che ricordano la figura mitologica greca di Thalia e Melpomene, rispettivamente la musa della commedia e quella della tragedia.
 Attraverso la frase Coming Out of my Comfort Zone volevo tirare fuori quella parte di ‘potenziale’ che tutti noi abbiamo, a nostro modo, ma che a volte rimane latente. Possiamo identificare il ‘comfort’ come una serie di abitudini più o meno radicate e caratterizzanti, che a volte rischiano di soffocarci. La loro connotazione positiva può anche virare in una sorta di atteggiamento di dipendenza o di mancanza di empatia e voglia di confronto con la dimensione della scoperta e dell’inaspettato, attraverso le quali possiamo invece espandere la nostra conoscenza. Celebra un nuovo modo di approcciare le cose che conosciamo, abbracciare l’incognito.

Oltre a questo significato ‘cosmico’, c’è anche una relazione con il ‘locale’ e il quartiere in cui il lavoro è inseritoPorta Nuova è un’area di gentrification accelerata, piena di contraddizioni e una strana e diffusa narrativa che accompagna la sua evoluzione che non sempre corrisponde alla realtà dei fatti - spesso più problematici di quanto sembrano - e che dovrebbe essere leva di un dibattito più ampio e attento su come vivere e progettare gli spazi pubblici e privati di Milano in una maniera più inclusiva e intersezionale.

Courtesy of Calvin Klein
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Il tuo lavoro creativo è parte di una campagna globale di Calvin Klein, #proudinmycalvins, dedicata al tema del Pride e al supporto della comunità LGBTQIA+: cosa significa per te partecipare a questo progetto?

Probabilmente ha significato ‘uscire dalla mia zona comfort’, mettendomi in gioco rispetto ad un ruolo che credo nessuno si senta mai abbastanza preparatƏ ad assumere, soprattutto con questo tipo di visibilità, rispetto ad una comunità che è talmente ampia, varia e vibrante, i cui confini sfumano o si modificano in un movimento libero e cangiante e a volte se ne può avvertire la presenza solo stando molto attentƐ a percepirne le frequenze.

Sono anche felice che l’inaugurazione del murale non sia avvenuta nel mese di Giugno, il Pride Month, e che si riesca a trovare spazio e tempo per far emergere l’orgoglio di appartenere alla comunità queer anche in altri momenti dell’anno, senza che in un mese così simbolico come quello di Giugno si esauriscano le iniziative e il dibattito su tutto il lavoro che c’è da fare costantemente per sensibilizzare società e istituzioni su questi temi e molto altro. Cosa si può dire a sostegno di una lotta nella quale sono immersa, rivendicata da sempre, combattuta da chi prima di me e da chi verrà? Ho pensato che un messaggio ombrello, come lo è la parola ‘queer’, che abbracciasse diversi tipi di attitudine e che incitasse ad una qualsiasi forma di cambiamento, e di attenzione, fosse ideale. Sussurrato a chi, passeggiando, alza gli occhi al cielo, e urlato al quartiere ‘fantasma’ che porta con sé un mondo corporativo e di privilegi.

 

Cosa significa essere un’artista multidisciplinare e quali sono i tuoi mezzi principali di espressione artistica?

Mi sono sempre dedicata a diversi linguaggi espressivi. Il primo è forse stato quello editoriale, con buffe zine fatte senza sapere ancora leggere o scrivere, poi ho dipinto per dieci anni in modo illegale, principalmente treni a spray nel contesto della scena Hip-Hop italiana - in una dimensione in cui il concetto di appropriazione era vitale per entrambi i soggetti: ‘noi’ per sentirci vivƐ, nelle provincie Italiane, rielaboravamo i codici che ci arrivavano dalla scena Latina e Afro-Americana, principalmente di New York e la cultura Hip-Hop stessa che, in America, si stava rapidamente trasformando, rischiando di scomparire. Questo periodo di forte sperimentazione mi è servito anche per avvicinarmi all’idea di performance, ma in generale, essere una persona queer dalla nascita, mi ha sempre portato a considerare molteplici punti di vista della stessa realtà e delle sue gerarchie (più o meno artificiali), in cui spazi, oggetti, emozioni e storie possono essere osservati da angoli diversi, per essere poi ribaltati e trasformati in nuove percezioni.

Sia che lavori con il gesto, con il suono o con l’immagine, c’è un costante senso di ‘altro’ nel mio lavoro, che spesso sfocia nell’'invito’ come pratica artistica stessa. Ad esempio è così per SPRINT, il salone di editoria indipendente e d’artista che dal 2013 realizzo insieme a Sara Serighelli dell’associazione non profit O’ e che quest’anno si svolgerà dal 26 al 28 Novembre in collaborazione con l’Istituto Svizzero, presso Spazio Maiocchi, con tante collaborazioni e progetti speciali tra realtà editoriali italiane e straniere. 

Come si è evoluto il progetto @tomboysdontcry dalla sua nascita ad oggi? E come si sta evolvendo Milano, secondo te, per quanto riguarda il supporto e l’inclusione della comunità queer/ LGBTQIA+?

Se TOMBOYS DON’T CRY fosse un materiale sarebbe spandex, la sua attitudine è estremamente elastica. Abbiamo iniziato con un’attività che vedeva coinvolti soprattutto i club, o gli spazi malandati che trasformavamo in sale da ballo, ma oggi, anche rispetto alla situazione sanitaria attuale, ci dedichiamo sempre di più a collaborazioni legate all’arte visiva e performativa e non soltanto alla creazione di avventure notturne. Anche se non è sempre facile trovare realtà disposte ad investire spazio, tempo e risorse nei progetti, e in generale su formati così poco istituzionali come il nostro. Per questo sono fondamentali le alleanze, per aiutarsi e sostenersi a vicenda in un panorama Italiano molto fragile per la produzione e la sopravvivenza artistica.

In Italia, e nello specifico a Milano, credo che la situazione - supporto/inclusione queer - sia complessa. La ‘patina’ di tolleranza accelerata da internet e dai social, come il sistema della moda che è da sempre l’industria più inclusiva - anche se con delle contraddizioni - danno segnali incoraggianti ma le urgenze sono tante e si devono tradurre in azioni concrete. Non basta identificare ufficialmente il quartiere di Porta Venezia come ‘gay friendly’ per risolvere i problemi di intolleranza e le difficoltà che possono emergere all’interno di una comunità così articolata, anche rispetto all’accoglienza di persone immigrate da territori in cui sono perseguitate o, in un’ottica intersezionale, rispetto alla possibilità di abortire in un ospedale pubblico, vista la quantità di obiettori di coscienza in Italia. Non so quanto sia simbolico che proprio davanti al murale una volta si trovava il club gay BDSM ‘La Nuova Idea’ che è stato raso al suolo per creare uno spazio pubblico a gestione privata il cui messaggi principale è: decoro.