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A cosa serve tutta questa moda "empowering"?

Slogan accattivanti e spalline anni’80, la natura ambigua del femminismo ben vestito

A cosa serve tutta questa moda empowering? Slogan accattivanti e spalline anni’80, la natura ambigua del femminismo ben vestito
Chloé FW2023
Chloé FW2023
Saint Laurent FW23
Saint Laurent FW23
Chanel SS2015
Givenchy FW2023
Givenchy FW2023
Chanel SS2015
Dior SS2017
Dior SS2017

Questa settimana, l’industria della moda sembra essere tornata nel 2016. Le riviste hanno ricominciato a utilizzare un linguaggio femminista per descrivere le ultime sfilate, con titoli seducenti e descrizioni celebrative: «Il power dressing è tornato in passerella,» «il ritorno del look da girl-boss,» «confidence, comfort and empowerment.» Allo stesso tempo, i team di pierre dei brand partecipi alla Paris Fashion Week hanno pubblicato comunicati stampa che narrano di abiti che «riscrivono gli archetipi della femminilità», modernizzano il guardaroba femminile con capi sovversivi che trasmettono “empowerment.” L’ultima volta che l’industria della moda aveva felicemente sfruttato questo termine era l’anno della vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane, quando le suo famigerate dichiarazioni misogine, razziste e anti-ambientaliste avevano ispirato designer e artisti di tutto il mondo a produrre collezioni deliberatamente politiche. Dal momento del suo inserimento nella Casa Bianca, le passerelle hanno cominciato a pullulare di statement shirt - chi se la scorda “We should all be feminist” - e look anni ’70, la decade sinonimo di liberazione femminista. Adesso che Anthony Vaccarello ha disegnato spalline vertiginose per Saint Laurent, Maria Grazia Chiuri ha preso spunto dall’indipendenza di donne della Seconda Guerra Mondiale per Dior, e Gabriela Hearst  ha narrato «il bene trasformativo che avviene quando le donne sono al comando» da Chloé, giornalisti e pubblicitari sono tornati a proporre discorsi sul femminismo, sulla solidarietà femminile e sull’importanza dell’abito giusto per essere sicure di sé. Ma serve davvero tutta questa moda “empowering,” se tanto chi ne trae vantaggio è già “empowered”? 

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Chloé FW2023
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Chloé FW2023
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Saint Laurent FW23
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Saint Laurent FW23
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Givenchy FW2023
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Givenchy FW2023

La riconciliazione di femminismo e femminilità ha introdotto nell’industria un metodo infallibile per fare pubblicità: la vanità come atto di self-empowering. Sebbene sia vero che ogni look può avere un aspetto politico, e che ogni scelta di stile può essere una dichiarazione del proprio punto di vista ideologico, se tutto quello che serve per rendere un abito femminista è descriverlo come tale, allora sì, quelle di Givenchy, Chloé e Saint Laurent erano sfilate femministe. Ma se si va oltre le loro glorificanti recensioni e i ridondanti comunicati stampa, la natura consumistica della moda ci ricorda che tutto ciò che è politico è anche marketing. La democratizzazione delle arti messa in atto dai social e il nuovo ideale attivista e politicamente corretto di celebrity e affini dimostrano che la propaganda post-femminista vende, soprattutto quando è ben vestita, e che da quando le donne hanno deciso che il frivolo - tacchi, trucchi e accessori - può servire per combattere il patriarcato, la moda gioisce. 

 

C’è da dire che di questa Paris Fashion Week va premiata l’originalità. Gli show hanno tratto ispirazione da donne di epoche diverse (Gabriela Hearst guardava ad Artemisa Gentileschi, Maria Grazia Chiuri a Catherine Dior), prendendo le distanze dal femminismo anni ’70 da cui altri designer avevano già precedentemente ripescato l'immaginario, come Karl Lagerfeld, che aveva replicato i cartelloni di protesta delle attiviste “brucia reggiseni” del 1968 sulla passerella della collezione Spring Summer 2015 di Chanel. Inutile sottolineare che le modelle mandate in passerella dagli stilisti, sia da Lagerfeld nel 2015 che da Hearst e Chiuri questa settimana, sono convezionalmente belle, alte e magre, e quasi tutte bianche. E che il pubblico a cui sono rivolte le collezioni, oltre a quello social, è soprattutto quello che compra, ossia un gruppo ristretto di donne privilegiate che hanno già tratto vantaggio dal femminismo, e che sono già “empowered.” Usando la narrativa femminista, gli abiti vengono pubblicizzati come scusa per acquisti guilt-free, un meccanismo che valorizza un successo materialista che rilega un intero movimento ideologico a un solo look, e non a conseguimenti professionali o personali, suggerendo che il successo delle donne si può misurare solo in base al loro aspetto: se hai la power-suit, sei a posto. 

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Chanel SS2015
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Chanel SS2015
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Dior SS2017
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Dior SS2017

Alcuni di questi brand dimostrano di avere effettivamente preso parte al movimento con qualche progetto mirato, come la collaborazione di Chloé con UNICEF nel 2021 per promuovere la gender equality, o l’impegno da parte dei dirigenti di LVMH ad aumentare al 50% la rappresentanza femminile nelle posizioni ai vertici delle proprie aziende. Purtroppo, però, finché un fashion show non mette in discussione le strutture del proprio sistema, finché non viene presa in considerazione l’intersezionalità del femminismo moderno, ogni sforzo da parte di far risultare un fashion show radicale continuerà a fallire nel suo intento. Come spiega la storica e curatrice Nathalie Khan nel libro Catwalk Politics, la moda «può riflettere, ma non può rinnovare, la società.» Forse è il momento di archiviare la girl-boss e ritornare a fare vestiti per le donne che li compreranno, senza fare tante storie.