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Perchè bisogna parlare della salute mentale della community QBIPOC

Anche dopo il Pride Month è necessario creare spazio

Perchè bisogna parlare della salute mentale della community QBIPOC Anche dopo il Pride Month è necessario creare spazio

Giugno è stato un mese estremamente simbolico per motivi differenti: è il pride month in cui si rivendicano e portano in piazza istanze fondamentali per la comunità LGBTQIA+. Giugno è anche un mese a cavallo tra il mental health awarness month, maggio, e il BIPOC Mental Health Month, luglio: due mesi in cui è fondamentale creare momenti di discussione a più livelli (sociale, culturale e politici) per mettere al centro quelli che i sono i malesseri psichici e tutte le problematiche della nostra società, che vanno a ledere la nostra salute mentale e di conseguenza la salute fisica e la qualità della nostra vita.

Ricordando e non scordando mai i Moti di Stonewall, identifichiamo come protagoniste di queste conversazioni le personalità razzializzate di Stormé DeLarveriem, una donna afrodiscendente lesbica, di Sylvia Rivera, una donna latina transgender e Marsha P. Johnson, una donna nera, una drag queen e una sex worker come fondatrici dei “Pride” in tutto il mondo, momenti di rivendicazione politica imprescindibile e tutt’ora necessario per l’amplificazione della conversazione attorno al concetto di internazionalità. Introdotto da diverse figure afrodiscendenti e teorizzato dalla giurista Kimberlé Williams Crenshaw nel 1989, il concetto di intersezionalità parla delle discriminazioni multiple e di forme di oppressione nei confronti di differenti identità sociali (appartenenza ad una classe sociale, etnia, credo religioso, orientamento sessuale, identità di genere ecc.ecc.) in una singola persona. E quindi è bene parlare sempre di più degli effetti che omobilesbotransfobia e razzismo hanno sulla salute mentale delle comunità QTBIPOC -Queer, Trans, Black, Indigenous People of Color.

Nonostante il ruolo storico delle comunità razzializzate sia alla base della nascita dei movimenti queer, è evidente che le persone Queer BIPOC sono ancora le più marginalizzate della comunità LGBTQIA+, per via degli incroci esistenti tra razzismo, etnocentrismo, xenofobia, queerfobia, transfobia e misoginia nei contesti occidentali. Inoltre, le complessità si intensificano per via dell’omobilesbontrasfobia delle comunità razzializzate, che è bene ricordare essere un retaggio coloniale ormai piuttosto instillato in diversi paesi, ma che ha preso piede con l’arrivo dei coloni che hanno definito “devianti” persone africane per la fluidità sessuale che caratterizzava certe comunità, andando ad introdurre e imporre leggi omofobe che purtroppo resistono tutt’ora.

Tale scenario ha un peso non indifferente sul benessere psichico della comunità QTBIPOC ed è bene sottolinearlo per creare maggiore consapevolezza sia a livello sociale che a livello politico. Oltre oceano, negli Stati Uniti, sono molti gli studi che dimostrano e rimarcano quanto l’Human Right Campaign Foundation, associazione LGBTQIA+ statunitense, sottolinea e rimarca attraverso articoli e progetti nelle scuole che le persone QTBIPOC attraversano e sperimentano allarmanti problemi di salute mentale: le persone queer razzializzate liceali hanno maggiore probabilità di tentare il suicidio (27%) rispetto ai coetanei queer (22%) e non (5%) negli USA. Inoltre, come sottolinea The Trevor Project, le persone BIPOC Queer difficilmente riescono ad avere le cure professionali necessarie e ciò si deve al razzismo sistemico che caratterizza i servizi di cura in occidente. Suman Fernando nel suo libro “Mental health, race and culture” ha studiato ed espresso i pregiudizi presenti negli ambienti sanitari e ha messo in evidenza quanto segue:

• gli operatori professionali – a qualsiasi etnia appartengano! – non sanno liberarsi dal pregiudizio

razziale profondo nel loro approccio di cura al paziente;

• nei servizi istituzionali vengono normalmente adottate prassi intrinsecamente razziste;

• la pressione sociale sui membri delle minoranze etniche di colore non-bianco – con le loro

conseguenti (e giustificate) reazioni di rabbia – non è tenuta in alcuna considerazione;

• il senso di alienazione sofferto dai membri delle comunità non-bianche viene interpretato come

sintomo della malattia e quindi come “problema” della persona, mai dell’intero contesto.

• I servizi di cura sono economicamente inaccessibili per le persone BIPOC.

Si crea quindi una completa sfiducia nei confronti della comunità medica, venendo allontanati direttamente o non dai percorsi terapeutici adeguati, e rimanendo quindi completamente soli in balia del proprio malessere, che si deve ad una società opprimente, razzista ed omobilesbotransfobica, per cui gli episodi traumatici sono pressoché quotidiani, andando a rimarcare ed aggravare costantemente le proprie condizioni di salute.

Di fronte ad uno scenario di questo tipo diventa sempre più importante riappropriarsi di processi di cura comunitari, che spesso hanno caratterizzato periodi moderni. Citando “Manifesto della cura” di The Care Collective:

"Tutte le forme di cura verso altri esseri umani e non umani dovrebbero avere uguale valore e riconoscimento, e le risorse necessarie alla loro sostenibilità. La definiamo etica della cura promiscua. L’etica della cura promiscua si basa sulla teoria sviluppata dalla lotta contro la diffusione dell’Aids tra gli anni Ottanta e Novanta [...] Qui il concetto di promiscuità non come sinonimo di «casuale» o «indifferente» ma di moltiplicazione e sperimentazione dei modi in cui gli uomini gay potevano entrare in intimità e prendersi cura l’uno dell’altro. Con lo stesso spirito anche noi possiamo prenderci cura in maniera promiscua. Con questo concetto non intendiamo una cura casuale o indifferente. È la cura capitalista neoliberista a rimanere distaccata, casuale e indifferente, con conseguenze disastrose. Cura promiscua invece è un’etica che si propaga verso l’esterno per ridefinire le relazioni di sostegno, dalle più intime alle più distanti. Significa avere più cura e in modi che restano sperimentali ed estesi anche in base agli standard attuali. Abbiamo bisogno di creare un’idea di cura più ampia.”

Così l’invito alle comunità marginalizzate e in seguito a tutte le comunità umane è quello di creare dei rapporti di cura, considerando sempre tutti i vari layer di oppressione che si subiscono quando si è portator* di identità sociali stigmatizzate multiple, dando sempre massiva importanza alla propria salute fisica e mentale e non dimenticando mai le persone della propria comunità che attraversano difficoltà maggiori e che perciò rischiano di vedere persa la propria vita per il troppo dolore.