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Che cosa sono i moti di Stonewall?

Il ruolo della comunità drag, la street culture e le rivendicazioni LGBTQIA+ all'origine del Pride

Che cosa sono i moti di Stonewall?  Il ruolo della comunità drag, la street culture e le rivendicazioni LGBTQIA+ all'origine del Pride

Ogni anno a giugno si festeggia il Pride, un momento di celebrazione, rivendicazione, comunità, ma anche e soprattutto di lotta, in memoria di Stonewall. I moti – o la rivolta – di Stonewall iniziarono nella notte tra il 27 e il 28 giugno 1969, quando la polizia fece irruzione in un gay club tra il 51 e il 53 di Christopher Street, a New York, lo Stonewall Inn. I clienti del bar, i residenti del quartiere e la comunità di strada si ribellarono ai soprusi degli agenti, dando il via a sei giorni di proteste e contrasti nelle strade circostanti. Non fu la prima né l’ultima occasione di scontro tra la comunità LGBTQIA+ (che all’epoca non immaginava minimamente una sigla del genere) e le forze dell’ordine, ma Stonewall si è caricato fin da subito di tutta la forza simbolica necessaria a definirlo come uno dei principali punti di svolta del movimento per la liberazione omosessuale.

Tra miti, leggende e idealizzazioni ripercorriamo il contesto di partenza, gli Stati Uniti degli anni Sessanta, e le figure di riferimento principali che hanno condotto a questi eventi, come Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera.

Il contesto: alcol, raid, mafia e omofobia

All’inizio degli anni Sessanta, in vista dell’esposizione universale che si sarebbe tenuta nel 1964, il sindaco di New York Robert Wagner Jr. diede il via a una campagna per “ripulire la città”, ovvero per rimuovere i gay bar, in particolare nei quartieri di Greenwich e Harlem. Due gli interventi più significativi: la revoca a tutti i bar delle licenze per alcolici e le continue irruzioni (che a volte prendevano anche la forma di vere e proprie operazioni sotto copertura) della polizia nei locali gay. in quegli anni, negli Stati Uniti, era vietato indossare più di tre capi del genere opposto al proprio, pena lagalera per “impersonificazione”, tenersi per mano, baciarsi o ballare in una “dinamica non eterosessuale” era ancora illegale e in generale il DSM (il Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali) considerava l’omosessualità come una devianza sessuale, un disturbo antisociale della personalità – per cui le persone omosessuali subivano “terapie” come l’elettroshock o la lobotomia. 

In questo contesto proibitivo, con una forte pressione sociale e una rappresentanza pubblica pari a zero le persone LGBTQ+ potevano esprimersi e socializzare solo in quei “luoghi di rifugio”, come bar e club; gli unici posti in cui conoscere altre persone, fare rete e vivere con un po’ più di serenità. Lo Stonewall Inn era uno di questi. 

Come la maggior parte dei locali del Village, lo Stonewall Inn era in mano ai Genovese, una famiglia mafiosa che l’aveva acquistato per $3.500 e, da ristorante e nightclub per etero, l’aveva reso un gay bar, l’unico di Greenwich in cui si ballava. Era registrato come un bottle bar, privato, quindi non aveva la licenza per gli alcolici, dato che ogni cliente avrebbe dovuto portare la  propria bottiglia. Molti bar gestiti dai Genovese riuscivano ad andare avanti senza licenze, questo perché la famiglia era riuscita a corrompere il sesto distretto della polizia di New York. Chi gestiva i locali come lo Stonewall Inn era un po’ l’ultima ruota del carro, perché erano posti come questo che permettevano alla mafia di tagliare davvero i costi; ad esempio non c’era un’uscita antincendio, oppure possiamo ricordare che i bicchieri non si lavavano, perché non c’era acqua corrente vicino al bancone.

Allo stesso tempo, però, era considerato the gay bar di Greenwich, una sorta di istituzione, anche per aver accolto la scena drag. Ed è importante precisare che, ai tempi, la categoria “drag queen” comprendeva anche transgender, donne transessuali e persone non binarie. Allo Stonewall Inn si potevano trovare al 98% uomini gay, qualche donna lesbica e diversi adolescenti senzatetto. C’era un bel mix di età, tendenzialmente entro i trent’anni, e di etnia, tra bianchi, neri e latino-americani. Per entrare, inoltre, c’era una regola non scritta per cui bisognava presentarsi inequivocabilmente come gay, il che creava non pochi problemi quando c’erano i raid.

La rivolta di Stonewall: la notte tra il 27 e il 28 giugno 1969

I poliziotti corrotti, solitamente, informavano i bar gestiti dalle famiglie mafiose prima che ci fossero le retate, permettendo di nascondere l’alcol e le altre attività illegali. La notte tra il 27 e il 28 giugno del 1969, la polizia arrivò allo Stonewall Inn senza avvisare, arrestando 13 persone, inclusi dipendenti e clienti che violavano lo statuto statale sull'abbigliamento appropriato per il genere. 

Improvvisamente un agente colpì in testa Stormé DeLarverie, mentre la costringeva a salire sul furgone per portarla in centrale. Qui la storia si mischia con il mito, e sembrerebbe che Stormé abbia urlato «Perché non fate qualcosa?», incitando la folla a lanciare ciò che si trovava in giro contro la polizia. La leggenda vuole anche che quella sera ci fosse la commemorazione di Judy Garland (considerata una gay icon), venuta a mancare qualche giorno prima, il 22 giugno, e che le persone si fossero stizzite per l’interruzione di un momento così “sacro”. Altri sostengono che le rivolte siano partite perché Marsha P. Johnson tirò un mattone, altre versioni perché Sylvia Rivera lanciò una scarpa col tacco. In ogni caso Stonewall è stata la prima risposta attiva contro le violenze perpetrate dalla polizia e dalla società del periodo.

In pochi minuti centinaia di persone iniziarono a ribellarsi, lanciando monete, bottiglie, ciottoli e oggetti vari contro gli agenti (due dei quali rimasero feriti). La polizia, alcune persone arrestate e un giornalista del Village Voice si barricarono nel bar, così la folla provò a incendiare il locale. Arrivarono i vigili del fuoco e i rinforzi della Tactical Patrol Force, un gruppo antisommossa noto per la sua brutalità, al che le persone presenti intonarono diversi cori, come «We are the Stonewall girls, We wear our hair in curls, We don’t wear underwear, We show off our pubic hair» (ovvero, Siamo le ragazze di Stonewall, portiamo i nostri capelli ricci, non indossiamo intimo, mostriamo i nostri peli pubici), un umorismo non del tutto apprezzato dalla TPF, che tirò fuori i manganelli. Dopo la notte, gli scontri continuarono i giorni successivi, per quasi una settimana, portando migliaia di persone in tutta l’area, dai gruppi di attivismo femminista e del Black Power alla New Left. Le proteste si trasformarono progressivamente in sit-in, riunioni, conferenze, articoli e testimonianze, e da lì prese forma il GLF di New York, ovvero il Gay Liberation Front, con l’obiettivo di ottenere i diritti per vivere apertamente il proprio genere, il proprio orientamento sessuale e la propria espressione al di là conformità, senza timore di essere arrestati.

Il 28 giugno del 1970, a un anno da Stonewall, si celebrò il primo Pride, dove migliaia di persone hanno marciato per  le strade di Manhattan dallo Stonewall Inn a Central Park in quello che allora è stato chiamato il "Christopher Street Liberation Day”.

28 giugno 1970, il primo Pride a New York

Il ruolo della marginalità: donne nere trans sex worker

I moti di Stonewall sono parte della storia del movimento LGBTQIA+, ma spesso sono stati mitizzati dai racconti divulgati online, che hanno spettacolarizzato gli eventi, un po’ per aderenza alla cultura camp comune a tutta la comunità queer, un po’ perché come scrive Eleonora Santamaria in Drag c’è «questa tendenza a voler rendere nella memoria “frizzanti” e “colorate” anche quegli eventi delle minoranze Lgbtq+ che tutto sono stati fuorché carnevaleschi. Non che non vi siano state ironiche provocazioni e libertà d’espressione, ma quei moti non sono stati uno spettacolo di cabaret, è stata una realtà anche sporca di sangue». A Stonewall in sé non ci sono state morti, ma non si può oscurare le violenze e sì, anche le morti, di quegli anni.

Allo stesso tempo si deve tenere a mente che la storia queer parte dalla strada, dal limite, dai margini della società, dalle minoranze. Questo è un punto che ci permette anche di capire perché il film di Roland Emmerich uscito qualche anno fa, Stonewall (2015), abbia ricevuto moltissime critiche, dal momento che ha scelto di presentare come protagonista un uomo cis bianco che per la maggior parte del film racconta la difficoltà di confrontarsi con la sua sessualità – una scelta presa “per raggiungere un pubblico più ampio di persone, perché è più semplice per le persone eterosessuali comprendere ed empatizzare con la storia”.

La storia di Stonewall, in realtà, non può prescindere dall’affermare il ruolo che hanno avuto figure come Stormé DeLarverie, una lesbica butch drag king e attivista, Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera. A queste ultime è spesso associato il mitico lancio del primo mattone a Stonewall, ma entrambe parteciparono alla rivolta solo in un secondo momento della notte. All’epoca non si utilizzava molto il termine “trans”, per cui Marsha e Sylvia erano considerate due drag queen, sex worker, attiviste per le persone trans e senzatetto. La P. tra il nome e il cognome di Marsha stava lì perché quando le persone si interrogavano sul suo genere, lei rispondeva sarcasticamente Pay it no mind (non badarci, non farci caso). Lesbiche e donne trans, nere, sono state alcune delle persone chiave coinvolte nell'atto di resistenza, soprattutto per il clima di comunità che hanno saputo creare in quei luoghi difficili, di estrema povertà, marginalizzazione e pericolo.

Marsha e Sylvia erano punti di riferimento della comunità, fondatrici anche di STAR, il gruppo Street Transvestite Action Revolutionaries – una delle prime House, un rifugio per tutte le persone che erano state sbattute fuori di casa, o che avevano subito violenze, che uscivano dal carcere, e così via. Il loro apporto è stato spesso dimenticato, o volutamente ignorato – come quando cercarono di impedire a Sylvia di parlare al Pride del 1973.

Quella di Stonewall Inn non è stata la prima rivolta LGBTQIA+ degli Stati Uniti: ci sono stati gli scontri al bar Cooper Donuts di Los Angeles, nel maggio del 1959, e poi nel 1966 i moti della Compton’s Cafeteria nel quartiere Tenderloin di San Francisco. Entrambi sono eventi che sono stati poco raccontati e poco indagati, non se ne conosce nemmeno le date esatte; di Los Angeles l’unica testimonianza è nel libro City of night di John Rechy, gli eventi di San Francisco, invece, sono raccontati nel documentario di Susan Stryker del 2005, Screaming queens.

Stonewall, invece, ha segnato l’inizio dell’attivismo gay, anche perché si è svolto in un contesto più ampio di movimenti per i diritti civili. È stato raccontato fin da subito, e per questo si è sedimentato nella memoria collettiva, dentro e fuori la comunità queer, fino a che nel 2016 il Presidente Obama ha designato il locale, le strade, i marciapiedi e il parco circostante – Christopher Park – il primo monumento nazionale in riconoscimento del contributo e del significato del luogo per diritti LGBTQIA+.