Perché si parla di sex work e che cosa significa farlo?
Abbiamo chiesto alla pornoattrice May Thai i pro e contro
07 Aprile 2022
Con il Covid-19 il lavoro sessuale, in particolare quello performato online, è diventato mainstream. Sempre più persone sono venute a conoscenza di OnlyFans, tanto che nelle prime settimane di lockdown la piattaforma ha registrato un aumento degli utenti del 75%, per molti casi è stato un bene; c’è chi ha scoperto una nuova fonte di reddito o chi ha trovato intrattenimento (ma anche confronto, e a volte conforto) in un momento complesso. Carol Maltesi, sex worker di 26 anni, aveva iniziato così, durante il lockdown, proprio su OnlyFans. Poi ha deciso di esplorare l’industria a luci rosse, sfruttando la popolarità ottenuta su OF e realizzando video porno, più o meno hardcore, professionalmente. Successivamente, il femminicidio, l’accanimento dei media volto alla spettacolarizzazione e al clickbait, i giudizi moralisti.
La mentalità nei confronti del mercato del sesso è culturalmente determinata. È la società in cui viviamo, e il sistema di regole che ne deriva, a decretare che cosa sia accettabile o meno, e questo dipende da diversi fattori. È indubbio, però, che non sia sempre stato così e che, in ogni caso, il lavoro sessuale esista e non possa essere ignorato. Abbiamo così chiesto a May Thai, sex worker e attrice porno italo-thailandese, di raccontarci la sua esperienza per comprendere al meglio che cosa significhi fare sex work.
Che cosa si intende per “lavoro sessuale” e “sex worker”
Avete presente quando in Euphoria Kat inizia a fare video in cam? Ecco, quella è una forma di sex work. Ma anche le persone che su Twitch fanno ASMR in intimo stanno svolgendo sex work.
Per lavoro sessuale o sex work si intende un qualsiasi lavoro che preveda una retribuzione economica per servizi e/o performance di tipo sessuale, erotico o romantico, in maniera consensuale ed esplicita. Fare sex work «significa scontrarsi con violenze, pregiudizi e stigma, subire gli effetti di politiche ipocrite e proibizioniste. Purtroppo significa anche temere per la propria vita»; questo che scrive Giulia Zollino in Sex work is work, è sempre più vero, specie in relazione alla vicenda di Carol. L’abuso esiste nel sex work, ma non definisce il sex work, quindi sarebbe utile (e necessario) smettere di fare pornografia del dolore, dando rilievo soltanto alle violenze, e riappropriarsi della narrazione circostante, esplicitandone sì i pro e i contro, ma soprattutto ragionando in termini di diritti e tutela lavorativa.
Perché utilizzare il termine sex work? Almeno per tre motivi:
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Perché mostra l’agency delle persone sulla loro scelta di carriera (ovvero la loro capacità di agire in determinati vincoli strutturali);
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Perché indica un lavoro volontario e non implica alcun tipo di sfruttamento, non è dunque da confondere con la sexual exploitation;
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Perché separa la persona dall’occupazione.
Pensiamo al verbo italiano “prostituirsi”. Noi lo conosciamo con il -si finale. Eppure fino al XVII secolo non esisteva, e si utilizzava “prostituire”. La forma transitiva spossessa di capacità riflessive le persone prostituite. Proviamo a fare un esempio: se noi diciamo “Mariavittoria si prostituisce”, allora è Mariavittoria che ha compiuto questa decisione. Prima, invece, si diceva “Mariavittoria è prostituita”, implicando che lei sarebbe stata vittima di qualcuno o di qualcosa. Ribadire l’agency di una persona che fa sex work significa smettere di dire poverina! e di ribaltare il pregiudizio per cui ogni sex worker sia vittima di sfruttatori, reti o dei propri percorsi biografici. Non si tratta di vittime, ma di persone che hanno compiuto una scelta che deve essere rispettata.
L’espressione sex worker è stata coniata nel 1978 dall’attivista Carol Leigh (anche conosciuta come Scarlot Harlot, o Big Red), ed è diventata famosa con la pubblicazione del libro Sex Work: Writings by Women in the Sex Industry (1987). Sex worker è un termine ombrello che indica una persona impiegata nell’industria del sesso. Si tratta di un’accezione più ampia del termine che dovrebbe ridurre lo stigma e ribadire l’empowerment di chi intraprende questa tipologia di carriera. In italiano si traduce in lavoratore o lavoratrice del sesso. In questa definizione rientrano persone che fanno quindi lavoro sessuale indoor, outdoor, online, offline.
Qualche esempio:
- soggetti coinvolti in quella che è tradizionalmente chiamata prostituzione;
- persone che lavorano nel mondo del porno (chi performa, chi fa regia, chi foto, chi make-up e così via);
- sex performers (pole dancers, stripper, go-go dancing, lap dance, neo burlesque e peep shows);
- phone sex operator;
- cam “girls” (ma sappiamo bene che la categoria è aperta anche ad altre identità);
- sex surrogates (persone che lavorano con psicologi e sessuologi in terapia);
- assistenti sessuali, o meglio O.E.A.S (operatore all’emotività, all’affettività e alla sessualità);
- sex-toys tester;
- figure coinvolte in pratiche e incontri BDSM (come pro-dom o pro-domme);
- chi fa attivismo in ambito sessuale (l’attivista e autrice Laura Meritt, durante un intervento al Porn Film Festival di Berlino, ha detto a Inside Porn che si considerava anche lei una sex worker, visto che in quanto attivista il suo campo di interesse e di ricerca è connesso al sesso).
- le OnlyFans model (e su piattaforme equivalenti).
Si tratta, quindi, di diverse facce della stessa medaglia, per cui risulta fondamentale non definire delle gerarchie interne, conosciute anche con il nome di Whorearchy (crasi anglofona tra whore, puttana, e hierarchy, gerarchia). Per calare nella realtà i discorsi teorici, abbiamo contattato May Thai, pornostar italo-thailandese e professionista del settore che ha performato in grandi produzioni pornografiche.
L’esperienza di May Thai nel porno
“Quand’ero teenager ho iniziato a fare scatti per passione, ritratti ad esempio. Quando invece ho raggiunto la maggiore età ho iniziato con gli scatti di nudo erotico. Mi piaceva, e ho continuato semplicemente passando, appunto, da foto a video. E quindi nel 2016 sono entrata nel mondo della pornografia, a 19 anni. Nel 2019, invece, ho continuato con contenuti simili, però sulla piattaforma OnlyFans.”
Così May Thai, modella e attrice nel mondo del porno racconta l’inizio del suo percorso professionale nel sex work, a dimostrazione della piena consapevolezza della decisione guidata da una passione. Il motivo principale che l’ha spinta a fare questo lavoro è l’interesse per i corpi, l’arte, e l’unione di fotografia e movimento.
“Avendo molta confidenza con me stessa, con il mio corpo e pochi tabù, ho semplicemente deciso di fare questo lavoro, anche perché mi occupa poco tempo e posso dedicarmi ad altre passioni”.
Lavorando all’interno dell’industria del porno come attrice, May Thai è presente sui principali siti di distribuzione pornografica e su Only Fans, inoltre gestisce i vari social, e fa interviste per diversi canali, perché il sex work richiede anche la gestione della propria immagine personale, nel ruolo di influencer. Le persone che per lavoro la contattano sono produttori, agenzie di modelle, attori e attrici, e content creators, oppure nomi conosciuti tramite social, ma anche fans e persone con cui ama messaggiare, mentre c’è anche un altro tipo di audience che commenta negativamente i suoi contenuti e la insulta per frustrazione, inconsapevole dei doveri della professionalità del sex work, dove convivono pro e contro come in tutti i lavori.
“Se dovessi scegliere una categoria per loro (gli hater), sceglierei sicuramente quella dei frustrati. Perché si sfogano su Internet per sentirsi meglio e, sinceramente, non sono commenti che reputo costruttivi, quindi la maggior parte delle volte non li considero, solitamente la gente che ha pregiudizi li ha proprio perché è male informata.”
afferma May Thai, sottolineando che per far capire alle persone che il lavoro sessuale è lavoro, occorre fare più divulgazione sul tema. Il suo lavoro è strettamente connesso al pubblico ma nonostante salturarie richieste strane – come richieste di video che la ritraevano mentre defecava – non si è mai sentita minacciata a livello professionale.
“Ma al di fuori del mio lavoro, dato che vengo sempre considerata appartenente al sesso debole. Quando mi trovo da sola, o cammino da sola, non mi sento protetta al 100%. Per fortuna ho iniziato a fare un po’ di autodifesa, per sentirmi più sicura”.
A livello di diritti, la categoria è comunque considerata in ambiguità, come un tabù e non se ne parla, secondo l’attrice servirebbero dei veri passi avanti. A questo link sono presenti tutti gli handles per sostenere May Thai.
Il lavoro sessuale è una questione economica e politica
I pregiudizi di cui parla May Thai costituiscono lo stigma della prostituzione, ovvero quei tabù che si sono accumulati nei secoli e hanno portato le istituzioni (come policy makers, ONG, Chiese) a reprimere e arrestare le lavoratrici e i lavoratori del sesso, marginalizzando e negando loro un posto nella collettività pubblica. Questo succede perché la nostra società, per com’è oggi e per come è stata in parte anche ieri, ha sempre cercato di regolare il mercato del sesso, tendenzialmente tramite criminalizzazione e misure punitive. E questo è accaduto sia nel mondo offline (pensiamo al “modello svedese” come ai “quartieri a luci rosse”) che in quello online. Ed è sempre una questione politica.
Il “District” di Storyville (New Orleans) è stato il primo quartiere a luci rosse legale nella storia degli Stati Uniti, attivo fino al 1917.
Tutte le piattaforme online con contenuti erotici o sessuali, infatti, quando guadagnano l’attenzione pubblica diventano anche oggetto di attacchi pubblici (di una massa e una classe politica conservatrice, ipocrita e anti-porn) e rischiano pesanti ripercussioni, come quando Visa e Mastercard hanno sospeso l’elaborazione dei pagamenti su Pornhub. L’unico risultato di queste politiche è quello di spingere il mercato nella clandestinità, e creare quindi condizioni di lavoro ambigue, per non dire pericolose. È così necessario, in primis, riconoscere formalmente del lavoro sessuale, affinché ci sia anche una normalizzazione e un’accettazione sociale, e “regolamentarlo” in questo senso, in termini di diritti e, poi, di doveri. A tal proposito, il Sex Workers in Europe Manifesto è un documento elaborato e approvato da 120 sex worker di 26 Paesi differenti, presentato durante il terzo giorno della Conferenza Europea sul lavoro sessuale, i diritti umani, il lavoro e le migrazioni nell’ottobre 2005. Nel Manifesto c’è una sezione chiamata il nostro lavoro, in cui si parla proprio sia di diritti che di doveri.
Diritti come quello di associarsi e fondare dei sindacati, per ottenere le medesime possibilità di sviluppo professionali; doveri come le imposte e il sostegno finanziario della società in cui si vive. Ma finché non c’è un riconoscimento del diritto alla tutela legislativa (per assicurare condizioni di lavoro favorevoli, remunerazioni adeguate, previdenza sociale e assistenza sanitaria) è impossibile, banalmente, “pagare le tasse”. O meglio: i contributi si possono pagare, perché le retribuzioni arrivano dalle case di produzione, o direttamente dagli utenti di OnlyFans, ma è sempre più difficile rivolgersi alle banche (che non vedono di buon occhio questi introiti, solo perché connessi al sesso). E non è un caso, quindi, che spesso chi fa sex work abbia trovato un punto di svolta con le criptovalute.E non è un caso che, invece di rivolgersi alle banche (che non accettano questi introiti, perché appunto non regolamentati), chi fa sex work abbia trovato un punto di svolta con le criptovalute.
Nel libro Femministe a parole, c’è un saggio di Giulia Garofalo (La fabbrica del sesso) che spiega una teoria di Paola Tabet, per cui:
«In tutti gli scambi sessuo-economici, compresa la prostituzione [e qui noi possiamo parlare di sex work in generale, ndA], l’elemento di sostegno materiale degli uomini verso le donne coesiste con quello di una sessualità non paritaria, tendenzialmente di servizio delle donne a vantaggio degli uomini. Ciò che sembra distinguere gli scambi che vengono stigmatizzati come “prostituzione” è che, rispetto agli altri, essi sono trasparenti, espliciti, e le donne possono negoziare apertamente. Secondo l’analisi di Tabet, queste caratteristiche vengono punite con lo stigma sociale e la criminalizzazione perché altrimenti potrebbero mettere in crisi un sistema in cui molti altri servizi forniti dalle donne, come quelli riproduttivi, domestici, psicologici, restano largamente informali, non riconosciuti e non pagati».
Il lavoro sessuale può essere quindi visto come una liberazione e un ribaltamento delle condizioni oppressive, economiche e sociali, storicamente subìte dalle donne.