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Esiste una quarta ondata femminista?

Tra #MeToo e T-Shirt "We Should All Be Feminists", l'attivismo si è fatto digitale

Esiste una quarta ondata femminista?  Tra #MeToo e T-Shirt We Should All Be Feminists, l'attivismo si è fatto digitale

Il femminismo è storicamente classificato in tre "ondate" (primaseconda e terza) che, però, non sono in grado di rispecchiare appieno le differenze. Si capisce anche solo dalla scansione temporale con cui si circoscrive ogni ondata, che ricalca gli sviluppi del movimento femminista statunitense: non la miglior premessa per fornire una visione globale di un movimento sociale multiculturale e intersezionale. Così negli ultimi anni il discorso sul grande Femminismo si è spostato sulle singole storie dei diversi femminismi esistenti. In questo contesto ha senso parlare di una quarta ondata femminista? Sì e no, forse più no. Infatti già si parte da una prospettiva distorta e sbilanciata che ha fornito sempre una rappresentazione parziale degli eventi. Questo focus sugli avvenimenti "occidentali" ha creato la retorica del «oggi il femminismo non serve più», da un lato perché si pensa che siano stati riconosciuti tutti i diritti – almeno quelli «più importanti» – dall'altro perché si vede il femminismo come un'ideologia superata che nell'immaginario comune coincide bene o male con la seconda ondata, o – detta alla boomer – a donne pelose arrabbiate che bruciano reggiseni e odiano gli uomini. Ma allo stesso tempo si parla di un quarta ondata, o almeno si tratta quotidianamente una questione da un punto di vista che consideriamo femminista. 

C'è la polemica su un articolo di qualche quotidiano schiavo del clickbait, ci sono le contestazioni alle uscite ridicole di qualche politico e grandi campagne di sensibilizzazione online. Molte tematiche femministe sono entrate nei discorsi di tutti i giorni, è un fatto, ed è anche innegabile che rispecchino ancora un posizionamento occidentale. Le condizioni di disparità nel mondo sono caratterizzate dai singoli contesti e anche dalle dinamiche globali, quindi a livello macro può essere funzionale parlare di quarta ondata. Ci si appella al concetto di "essenzialismo strategico", proposto dalla filosofa post coloniale Gayatri Spivak, che - spiegato in modo riduttivo, ma facile - significa che diverse persone possono parlare in nome di un unico gruppo per dare risalto a una causa comune. Una donna nera etero, una bianca lesbica e un uomo trans sono persone consce delle proprie differenze, ma possono affermare politicamente un'identità unica, come nel caso del DDL Zan. Utilizzare l'espressione "quarta ondata femminista" dà risalto a un movimento diffuso che negli effetti è già presente. 

 

Origini e caratteristiche della quarta ondata

Nel 2011 Jennifer Baumgardner pubblica F'em! Goo Goo, Gaga, and Some Thoughts on Balls, una raccolta di saggi, articoli e interviste che possono riassumere il quadro di partenza. Troviamo, infatti, una grande varietà di temi, dall'allattamento condiviso a Björk, tra Riot Grrrl e attivismo intersezionale. Rispecchia appieno la terza ondata. Nell'ultimo capitolo Baumgardner si chiede se esista o meno una quarta ondata – Is there a fourth wave? If so, does it matter? – perché ha notato una generazione "tech-savy and gender-sophisticated", che pubblicava sui blog lunghi articoli e twittava a favore di un ampio spettro di identità di genere. Tra i progetti di riferimento troviamo il blog Feministing creato nel 2004 da Jessica e Vanessa Valenti (che nel 2011 lo lasciano in mano a femministe "più giovani") e la campagna The Everyday Sexism creata nel 2012 da Laura Bates. C'era – e c'è ancora – un sito in cui si raccoglievano storie di sessismo quotidiano da tutto il mondo, dal catcalling alle discriminazioni sul luogo di lavoro, che sono confluite due anni dopo in un libro: centinaia di racconti di persone comuni in cui ci si può facilmente immedesimare. Oggi non sembrerebbe niente di nuovo, ma è lì che sono nati i primi hashtag con lo scopo di creare una forma alternativa online di solidarietà, a carattere globale (dal #BringBackOurGirls a #HeForShe). 

Non mancavano ovviamente le critiche, come quella della femminista radicale australiana Germaine Greer (intellettuale di seconda ondata più volte accusata di transfobia) che in un articolo aveva commentato il progetto dicendo che "sputare indignazione su un blog non ci porterà da nessuna parte". Però secondo la giornalista inglese Kira Cochrane è proprio con The Everyday Sexism che inizia chiaramente la quarta ondata femminista: un movimento definito dalla tecnologia, che tramite le possibilità della rete diventa popolare (anche pop), e si batte con pragmatismo e humour per l’inclusività. Un esempio di quarta ondata è la performance di Beyoncé nell'agosto 2014 sul palco degli MTV VMAs in cui ha cantato Flawless con dietro la scritta FEMINIST. Il brano, infatti, comprende al suo interno un estratto del discorso We Should All Be Feminists dell'autrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, e ha permesso di raggiungere persone che probabilmente non avrebbero mai letto un testo di Adichie. 

Dal #MeToo in poi: i temi

Ogni anno Merriam-Webster, editore statunitense del famoso dizionario, decreta la parola più cercata e usata nelle conversazioni pubbliche: nel 2017 era "femminismo". La percentuale di ricerca era cresciuta del 70%, in particolare con due picchi: a fine gennaio, dopo l'insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca con la marcia delle donne di Washington, e a ottobre con l'esplosione dello scandalo Weinstein e del #MeToo

L'espressione Me Too deriva da un'attivista afroamericana, Tarana Burke, che nel 2006 l'aveva utilizzato come slogan per suscitare empatia e sostegno a donne e ragazze nere che avevano subito molestie. Undici anni dopo, l'attrice Alyssa Milano usa l'hashtag su Twitter per invogliare altre donne a denunciare e a esporsi dopo le accuse a Harvey Weinstein. Il #MeToo da un lato ha portato visibilità a un movimento dandogli risonanza mondiale, dall'altro si è anche appropriato di una pratica di autocoscienza di un gruppo di donne che non erano quelle rappresentate. L'espressione non appartiene alle donne bianche di Hollywood, ma si inserisce nel discorso mainstream nel tentativo di attirare l'attenzione sulla pervasività dell'abuso sessuale in maniera intersezionale. 

Il femminismo di quarta ondata è fondato proprio sull'intersezionalità, sulla libertà di scelta (nella giustizia riproduttiva come nel sex-work), su un'analisi della rappresentazione mediatica e delle dinamiche online. È un movimento aperto a tutt* (e sì, si inizia a usare il temuto asterisco, o il simbolo fonetico "ə") che dovrebbe auspicare una pratica femminista transnazionale e anticapitalista. Gli argomenti della quarta ondata sono essenzialmente gli stessi della terza, ma hanno una connotazione differente data anche solo banalmente dalle variazioni sociali e tecnologiche. Si ripropongono i movimenti body-positive, sex-positive e Free The Nipple, si parla apertamente di sesso e di pornografia, tra educazione sessuale e lavoro sessuale, ma più che farlo in seminari e conferenze ci si sposta su TikTok e nelle dirette su Instagram, anche se qualche Slut Walk c’è ancora. Da qui, ad esempio, si è sviluppato anche tutto un nuovo discorso sull'auto-oggettificazione, che da alcune femministe è considerata una forma di svalutazione, per altre è una riappropriazione positiva del proprio corpo, altre ancora la considerano una forma legittima di esposizione di sé in funzione dei propri desideri. 

La sessualità viene trattata anche in termini di violenze, abusi e stupri, e si cerca di analizzarli anche in relazione ad altre identità, non solo nella categoria "donne". Ogni tematica si declina anche nel contesto geografico in cui viene trattata da Millennial e Gen Z: è la politics of location di Adrienne Rich, per cui un luogo sulla mappa è anche un posto nella storia. Ogni soggetto è situato in un hic et nunc e, dunque, produce un sapere sempre diverso. Si parla di femminismo islamico, di appropriazione culturale, di problematiche sociali secondo un approccio che ri-personalizza la politica, e si schiera a favore di tutti i soggetti marginalizzati.

 

Cultura pop, online e marketplace feminism

Per trovare segnali di influenza politica e di attivismo il femminismo non guarda più solo alle istituzioni tradizionali (conferenze, università, proteste, marce e così via), ma si è ritagliato un ampio spazio sui social, offrendo a chiunque la possibilità di trasmettere la sua voce in tutto il mondo – sempre che abbia una buona connessione. Questo ha portato una grande attenzione sulle rivendicazioni femministe, ma ha anche fatto intravedere nuove opportunità di marketing. È quello che Andi Zeisler, la fondatrice di Bitch, ha chiamato marketplace feminism, ovvero tutte quelle pratiche di cooptazione commerciale che hanno svuotato il femminismo della sua accezione politica e che hanno permesso a celebrity, brand e progetti editoriali di appropriarsene a fini pubblicitari. Tornando all'esempio di Beyoncé, nel 2016 la direttrice creativa di Dior Maria Grazia Chiuri ha portato in passerella una t-shirt con scritto We Should All Be Feminists e sempre più persone si sono chieste se una maglietta da $710 possa definirsi femminista. In quel caso una percentuale delle vendite era stata devoluta a The Clara Lionel Foundation, organizzazione no-profit fondata da Rihanna nel 2012. Da qui, in We Were Feminists Once (2016), Zeisler ha analizzato le ripercussioni sociali di questo femminismo che si interseca con la cultura pop, creando un approccio decontestualizzato, controverso e alla ricerca del clickbait. 

Se prima si producevano show televisivi, film, documentari e libri, ora il femminismo è venduto in una forma non testuale: linee di biancheria intima, giocattoli e anche qualche energy-drink si definiscono femministi. A fare da controparte al pink washing c'è l'attivismo online, con i suoi punti di forza (uno fra tutti il grande lavoro di divulgazione) e le sue debolezze, come il doversi schierare sempre immediatamente su ogni polemica, senza trattare in maniera approfondita gli argomenti. La confusione data dalle molteplici "battaglie" femministe si rispecchia anche a livello teorico, per cui soprattutto in Italia non si riesce a delineare chiaramente un programma comune, e i risvolti concreti non hanno neanche il tempo di materializzarsi, perché si perdono nelle storie di Instagram.