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Il caso delle modelle reclutate nei campi profughi

Un'inchiesta esclusiva del Sunday Times ha fatto luce su come le agenzie sfruttano le modelle con la promessa di un futuro migliore

Il caso delle modelle reclutate nei campi profughi Un'inchiesta esclusiva del Sunday Times ha fatto luce su come le agenzie sfruttano le modelle con la promessa di un futuro migliore

Sempre più spesso discutiamo della mancanza di diversità sulle passerelle. Ci chiediamo perché le fashion weeks siano ancora dominate da modelle (e modelli) bianche, cisgender, abili, giovanissime e magre o perché non ci sia più spazio per altre etnie, età e taglie, ma ci siamo mai chiesti quale è il prezzo dell’inclusività? Lo ha fatto il Sunday Times che, intervistando decine di modelle, ha indagato su come le agenzie di modelle reclutino giovani che sono fuggiti da Paesi africani devastati dalla guerra e che vivono in condizioni di estrema povertà con la promessa di un futuro migliore. L’inchiesta si è concentrata soprattutto sul campo profughi di Kakuma, in Kenya, scoprendo che sempre più ragazze vengono scelte per sfilare in Europa, ma sono pochissime a trovare fortuna. La maggior parte di loro torna indietro nel giro di pochi giorni o settimane, senza aver guadagnato nulla, ma, al contrario, cariche di debiti.

Alla ricerca della nuova Adut Akech

Gli insiders sostengono che l’interesse verso le modelle africane sia cresciuto grazie alla domanda di inclusione e grazie al successo di Alek Wek e di Adut Akech, che fuggita dal Sudan nel Regno Unito da adolescente, è stata il volto di marchi come Chanel, Dior e Victoria's Secret. Lo conferma anche Carole White, direttrice di Premier Model Management ed ex agente di Naomi Campbell: "Al momento è molto di moda avere una modella africana. I sudanesi sono molto ricercati. È così prolifica la richiesta di modelli africani: donne, uomini, ragazzi e ragazze. Quando è caduto il muro di Berlino, il look era quello dell'Europa dell'Est. Ora non guardiamo quasi mai le ragazze russe". La maggior parte dei marchi non sa da dove viene la modella che ha assunto o cosa le succede dopo un casting o un servizio fotografico. Si affidano all'agenzia perché si comporti in modo etico e paghi alla modella quanto le spetta. Ma, spesso, questo non avviene. Anzi. 

Il campo di Kakuma

Kakuma si trova nord del Kenya, vicino al confine con l'Uganda e il Sud Sudan ed è uno dei campi profughi più grandi del mondo. Costruito nel 1992 e gestito dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), ospita 280.000 persone, rifugiati provenienti da diversi Paesi in guerra dell'Africa orientale e centrale. Più della metà proviene dal Sud Sudan, il paese più povero del mondo, dove la guerra civile e tribale ha causato milioni di morti e sfollati. Il campo si estende per 15 miglia, ha 55 scuole ed è costellato di negozi che vendono vestiti, articoli per la casa e cibo. Le case sono fatte di mattoni di fango con tetti di lamiera ondulata, i servizi igienici sono buchi nel terreno, l'acqua pulita è razionata e l'elettricità è scarsa. Le razioni di cibo sono state recentemente ridotte del 40%, e molte persone sopravvivono con un solo pasto al giorno. Chi vive in queste condizioni è vittima di povertà estrema e rischio di malattie. Molte giovani donne subiscono matrimoni forzati e, come denunciato da Amnesty International, i residenti LGBTQIA+ subiscono regolarmente crimini d’odio, violenze, e altre gravi violazioni dei diritti umani. 

Come le agenzie di scouting sfruttano l'illusione di un futuro migliore

Per la gente di Kakuma, fare la modella è come trovare il biglietto d’oro di Willy Wonka. Ed è su questo che le agenzie fanno leva, promettendo grandi risultati e omettendo i rischi e l’alta possibilità di ritornare al punto di partenza, senza soldi e prospettive. I talent scout locali cercano talenti e inviano foto ai capi europei, a migliaia di chilometri di distanza, mentre alcuni setacciano gli account Instagram dei rifugiati. Cosa succede a chi viene selezionato? Le modelle che superano la prima fase di reclutamento ricevono un permesso di lavoro o un'autorizzazione governativa per uscire dal campo profughi, vengono portate a Nairobi dove gli vengono forniti passaporto e una Visa e prenotato un volo per l’Europa. Una volta lì, vengono sistemate in un alloggio e viene loro dato un portafoglio con 70-100 euro a settimana per il cibo e le spese. Le modelle rimangono in Europa alcune settimane, ma se non ottengono abbastanza lavori pagati o vengono ritenute non idonee, tornano in Kenya. Ed è qui che iniziano i problemi. Per una modella che ce la fa, sono tantissime quelle che, come hanno testimoniato loro stesse al Sunday Times, tornano al campo, scartate perché ritenute troppo malnutrite o inesperte per lavorare.

Oltre al danno, la beffa

L’industria delle modelle funziona con un sistema basato sul debito. Le agenzie europee finanziano Visa e volo, solitamente da ripagare quando la modella inizia a guadagnare. Così, quando per qualsiasi motivo una modella viene respinta o non guadagna abbastanza,  non solo torna alla situazione di partenza, ma si ritrova anche con un carico di debiti verso l’agenzia. Per Matteo Puglisi dell’agenzia Select, la stessa che ha lanciato Sienna Miller, David Gandy e Stella Tennant, che viene citato nell’articolo del Sunday Times insieme a Joan Okorodudu, un'imprenditrice nigeriana che guida l'agenzia Isis Models, presentare una dichiarazione di debito alle modelle è "un obbligo fiscale". Oltre che un piccolo inconveniente per "l’opportunità per un futuro migliore". Puglisi sottolinea anche che l’agenzia è "molto chiara" sul fatto che le modelle non verranno trasferite in Europa in modo permanente e che non c’è alcuna garanzia di successo. Tutte affermazioni da cui le intervistate dal Sunday Times dissentono.

L’inclusività non può diventare sinonimo di sfruttamento

Questo meccanismo vale qualsiasi sia la provenienza della ragazza, ma nel caso sia reclamizzata come l’unica via di fuga verso un futuro certamente migliore, suona come una beffa di intollerabile crudeltà. È un sintono chiaro che il sistema sia malato e va rivoluzionato. Come ricorda Peter Adediran, fondatore dello studio legale Pail di Londra, specializzato in diritto dei media e della tecnologia e con 21 anni di esperienza nel settore del modellismo, spesso le modelle vengono dall’est Europa o dall’Africa, sono vulnerabili, non capiscono i contratti ed i loro genitori pensano di dar loro l’opportunità di far avverare i propri sogni, mentre le agenzie vendono loro delle illusioni. "Sono così i giovani non hanno esperienza nel gestire i soldi, le finanze o nel comprendere le pagine dei contratti che vengono loro dati. Le agenzie dovrebbero avere la responsabilità di essere chiari e educare i modelli da subito da quando li scoprono e su cosa si aspettano da loro." Ma risuonano ancora più forti e necessarie le parole Nyabalang Gatwech Pur Yien, che è tra le giovani donne che non hanno avuto la fortuna promessa: "se il mondo vuole modelle dai campi profughi, dovrebbe prendersene cura. Non siamo spazzatura, siamo esseri umani, abbiamo bisogno di essere trattati come esseri umani, con dignità."