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Il miraggio delle modelle plus size

Di come nell'industria della moda sia tutto un trend, anche i corpi

Il miraggio delle modelle plus size  Di come nell'industria della moda sia tutto un trend, anche i corpi

Dov’è finita l’inclusività in passerella? Le sfilate FW 2023 sembrano aver cancellato dai loro casting le modelle plus size, tornando a proporre un’ideale di bellezza univoco che coincide con una magrezza estrema, fatta di guance scavate, pance concave, gambe sottilissime e fianchi inesistenti. Se nelle scorse stagioni sembrava che l'industria stesse facendo piccoli passi verso diverse taglie e tipi di corpi, con l’attuale fashion month si registra un passo indietro. I brand sono tornati ad un’estetica anni ’90-Y2K e non solo in termini di ispirazione stilistica. La ritrovata passione per vita bassa, minigonne inguinali, per top che lasciano le pance scoperte e per l’heroin chic alla Kate Moss, ha contribuito a riaffermare il thin priviledge e la feticizzazione della magrezza. Come molti avevano già ampiamente previsto, la maggior parte delle campagne e delle dichiarazioni a favore della body positivity si sono rivelate parole vuote, il tentativo di compiacere e soddisfare l’ennesimo trend, ancora ben lontano anche solo dallo scalfire la grassofobia imperante nell’ambiente. 

Così in passerella le rappresentazioni non conformi alla taglia 0 si sono ridotte drasticamente ai soliti nomi: Ashley Graham in un attillato mini dress per Dolce&Gabbana, Precious Lee per Off-White e Thom Browne, Jill Kortleve per Chanel, Nensi Dojaka, Michael Kors, Coperni, Alexander McQueen e pochissimo altri esempi. I report ufficiali del fashion month FW23 devono ancora essere resi pubblici, ma confermano un trend negativo iniziato già da tempo. Secondo The Fashion Spot, la settimana della moda di New York relativa alla primavera del 2020 ha avuto la presenza di 68 modelle plus size; la primavera del 2022 48 apparizioni di modelli plus size e l'autunno 2022 51. Alla London Fashion Week, su circa 2.640 modelle che hanno sfilato in questa stagione, solo 71 potevano essere considerate plus size, e la Milan Fashion Week aveva il 77% in meno di modelle plus size rispetto a Londra. Un recente rapporto di InStyle, invece, ha esaminato tutti i marchi che hanno sfilato nella primavera 2023, per un totale di 327 designer, e ha esaminato le taglie che vendono. Tess Garcia ha scoperto che "Londra rappresenta la gamma di taglie più piccola in assoluto, con solo l'1% dei designer che offre una taglia 20 o superiore e il 27% che raggiunge una 14". Poi è arrivata Parigi, poi Milano, con New York in testa alla classifica, con "il 19% dei designer che produce una taglia 20 o superiore".

L’elogio della diet culture, passa dal recente dimagrimento delle Kardashian alla fine dell'era BBL(Brazilian Butt Lift, cioè l’intervento chirurgico per volumizzare le curve del sedere), dal ritorno dell’indie sleaze all’incremento dell’uso improprio di Ozempic come dimagrante e arriva fino ad una rappresentazione univoca e spesso tossica del corpo femminile (ma anche maschile) sulle recenti passerelle. La cosa è diventata tanto palese da venire segnalata persino da Vanessa Friedman, fashion director del New York Times, che in un tweet dello scorso febbraio ha scritto: "Anche io sono distratta dall'estrema magrezza di molte delle modelle nella sfilata di Jason Wu". Inevitabilmente, è stata criticata per aver citato Wu, che solitamente qualche taglia diversa la propone, e non aver mai menzionato brand come Saint Laurent o Prada dove le modelle skinny sono la prassi. L’argomento è sicuramente delicato e non dovrebbe mai tradursi nella stigmatizzazione di chi è esile per natura (altra cosa di cui è stata accusata la Friedman), ma sta diventando innegabile anche per gli insider del settore che c’è differenza tra un corpo magro e uno malato. Tutto ciò insieme alla mancata rappresentazione di diversità non fa altro che alimentare un sistema tossico che è accettato in modo silente all’interno dell’industria, impattando negativamente su chi ci lavora, ma che ha anche l’onere di plasmare l’estetica mainstream di buona parte del resto del mondo. In parole povere l’estetica patinata delle riviste e l’ostentazione della magrezza come unico sinonimo di bellezza, costruisce un’immagine aspirazionale di perfezione che fa sentire chi non la possiede inadeguato, sbagliato, brutto, triggerando problematiche come disturbi alimentari e dismorfia corporea. Non è certo una novità, ma il miraggio dell'inclusività body positive che sta svanendo sembra una sconfitta o peggio una presa in giro, come se la promessa di una rappresentazione plurale fosse svanita da sotto gli occhi. La domanda è perché?

La risposta è complessa, tocca aspetti etici, culturali, economici ed è in gran parte nelle mani di chi ha potere decisionale. E dire che, si sa, la moda funziona così, vanno bene solo le taglie 0 di campionario, non è una scusa. Forse parlarne non cambierà concretamente la situazione, ma, almeno, indica che non siamo più disposti ad accettare una rappresentazione che produce un disagio sistemico, socialmente accettato, ma non per questo immutabile. Il sogno di vedere il maggior numero possibile di corpi diversi in passerella e capi di un range di taglie più ampie nei negozi non può diventare realtà solo per alcune catene fast fashion o per l’underwear di Rihanna e Kim Kardashian. E la body positivity non può essere solo un movimento temporaneo, valido il tempo di una campagna o un progetto social. Non può essere soggetto a perdita di trazione e interesse, la suggestione del momento da rimpiazzare alla stagione successiva. I corpi non sono tendenze. Esistono, hanno validità e diritto di essere rappresentati al di là della volubilità del mercato.